Mi sentivo obbligato a far capire a Craxi, e non solo a lui, l’importanza che questo passaggio aveva per il nostro futuro. Se avessimo sciolto le Camere e fossimo andati alle elezioni a metà del 1991, cioè nel periodo in cui si trattava Maastricht, l’Italia non sarebbe esistita al tavolo del negoziato. Doveva prevalere – e prevalse – l’interesse nazionale che peraltro corrispondeva a quello europeo: l’Italia infatti fu abbastanza decisiva nel trovare il punto di compromesso tra le impostazioni chiamiamole filo-Nato e anti-Nato, tra le impostazioni prevalenti tra i francesi e in parte tra i tedeschi e quelle degli inglesi e degli olandesi.
Questi aspetti ovviamente interessano poco oggi, ma allora furono decisivi per convincere Craxi. Che peraltro volle tenere in considerazione la richiesta di Veltroni e D’Alema che non volevano anticipare le elezioni proprio perché questo li avrebbe messi in grande difficoltà. Comunque, quando il 7 febbraio del 1992, con il ministro del Tesoro, Guido Carli firmammo il trattato, tirai un sospiro di sollievo. In quel momento pensai che era fatta e che l’Italia era, grazie a Maastricht, nelle condizioni migliori per uscire alla fine del XX secolo come il Paese europeo più avanti e più in vantaggio. Ero convinto che era possibile un’evoluzione politica e che, dopo le elezioni dell’aprile del ‘92, lo sbocco natu¬rale di tutto quello che era bollito in pentola dalla metà degli anni ‘70 fino a quel momento fosse il ritorno al governo dei socialisti con Craxi presidente del Consiglio. Bettino rappresentò infatti il primo dirigente socialista che seppe cogliere l’inizio della fine di Yalta e dell’equilibrio che quel patto aveva determinato.
Già alla metà degli anni ‘70, aveva intuito il vantaggio per il suo partito: nello schema di Yalta, il Psi poteva scegliere solo se essere subalterno al Pci o essere subalterno alla Dc. L’autonomismo era cifra politica con cui Craxi intendeva riempire gli spazi che andavano aprendosi. Il culmine della scelta oltre Yalta che il Psi ha interpretato negli anni tra il 1976 (Midas) e il 1992 doveva essere col go¬verno Craxi del dopo-fine della Guerra fredda. Bettino avrebbe assolto al compito di dare finalmente una politica estera all’Italia, una politica estera finalmente autono¬ma. Il nostro Paese, allora, a differenza del 1945, era tra i vincitori ed era nella condizione di potere scegliere in maniera autonoma, e quindi sulla base di un’autonoma scelta, una lettura dei propri interessi nazionali. Un simile ruolo dell’Italia avrebbe contribuito a cambiare la storia dell’Europa che è stata invece una serie di errori sopra errori. Nella rilettura degli avvenimenti del ‘92 non dovremmo sottovalutare il danno gigantesco per l’Europa che è stato fatto da Mani pulite. Certo, errori ne abbiamo commessi anche noi, che all’epoca avevamo fonda¬mentali responsabilità politiche e di governo.
È giusto ammettere e riconoscere che abbiamo sottovalutato la necessità di dare risposte in tempi molto più brevi a un’opinione pubblica che in tutto il mondo cambiava. Allo stesso modo, rimango convinto che l’errore maggiore venne fatto da noi socialisti ed in modo particolare da Craxi dopo le elezioni quel 5-6 aprile del 1992. Pensavamo di averle perse e invece le avevamo vinte. Avevamo la maggioranza alla Camera e al Senato e naturalmente Craxi avrebbe dovuto andare a fare il presidente del Consiglio. Invece Craxi, ahimè convinto da Amato, da Martelli e da Formica, oscillò e si convinse che era meglio fare il presidente della Repubblica. Io cer¬cai disperatamente di dissuaderlo e ricordo che gli dissi: “Se temi che i democristiani non ti sostengano per Palazzo Chigi dove il voto è palese, come fai a pensare che ti voteranno per il Quirinale con il voto segreto?”. Il risultato fu che così facilitammo l’errore successivo, cioè contribuire a spingere il presidente Cossiga a dimettersi. Se fosse rimasto in carica sino alla scadenza naturale, il 7 luglio, è assai probabile che avrebbe dato proprio a Bettino l’incarico di formare il governo. Invece noi, senza Cossiga, finimmo per ritrovarci Oscar Luigi Scalfaro, su suggerimento di Pannella ma con il beneplacito di Forlani e Craxi.
Molti di noi socialisti avevamo dubbi ma Craxi diceva: “No, è stato il mio ministro degli Interni, è fidatissimo”. Poi si è visto come è andata a fini- re. Sull’elezione di Scalfaro, anche per il ruolo che ebbe Pannella, si è molto fantasticato di complotti. Io non ci credo, ma sicuramente ci fu un uso politico dei fatti che andavano determinandosi. Nella magistratura erano pre-senti correnti e approcci “ben noti” ma nessuno di noi immaginava che sarebbe potuto avvenire quel corto circuito complessivo che poi invece di fatto avvenne. Ripeto: non un complotto, un corto circuito. Cui noi socialisti non mancammo di contribuire attivamente. Non potrò mai dimenticare il 6 aprile del 1992: era il lunedì dopo le elezioni ed io ero a Bruxelles perché ero ancora ministro degli Esteri e c’era quel giorno un vertice europeo. Passai molto tempo al telefono: arrivavano i primi dati elettorali che non erano positivi. Si sparse l’idea che avevamo perso le elezioni, cosa che il giorno dopo si rivelò non essere vera. Ma intanto Giuliano Amato andò in televisione quella sera stessa per dire: “Questa è una situazione nuova, i socialisti ritirano la candidatura di Craxi a presidente del Consiglio”. Tre giorni dopo – era giovedì – noi facemmo una direzione del partito in cui i socialisti aprirono al Pds. La sera stessa Occhetto respinse l’offerta. Demmo l’impressione di essere preda di uno sbandamento che culminò con l’ulteriore errore di proporre Amato per la guida del governo. Io ero a favore del governo Craxi ma in alternativa suggerivo l’ap¬poggio esterno ad un esecutivo a guida Dc. Bettino non volle ascoltarmi e pensò di fare quella che, parlando con me, definì una “strambata”: scelse Amato.
Il 2 luglio poi fece il celebre discorso alla Camera, lo pronunciò durante la discussione sulla fiducia al governo. Il vero fallimento di quel discorso non fu tanto che tutti fecero finta di niente ma che a far finta di non aver capito fu Amato. Perché chi aveva il dovere di prendere sul serio quel discorso e di agire era il governo. Il governo di un presidente del Consiglio che era espressione del Psi e di Craxi. Bastava che Amato facesse a metà luglio un decreto legge sulla questione del finanziamento ai partiti. Punto. L’acqua nella quale ha navigato Mani pulite è stata rappresentata da quello che era un reato (il finanziamento illecito) che avevamo commesso. Craxi lo aveva ammesso, e la situazione poteva e doveva essere risolta politicamente. Andò tutto in una direzione diversa anche perché, ancora il 2 luglio del 1992, non era così chiaro che era in corso un’offensiva generalizzata. Capimmo la portata del disegno solo nella primavera del ‘93, quando dal finanziamento pubblico si passò alla mafia L’operazione fece un salto di qualità con l’uno-due Andreotti-Gava colpiti in due giorni successivi, il sabato e la domenica. Lì si comprese tutta la trama che c’era dietro. Il cuore del disegno era politico: venne alterato in maniera drastica e irreversibile l’equilibrio politico del Paese, che poteva uscire rafforzato dalla fine della Guerra fredda.
Con un’operazione scientifica, fu rasa al suolo un’in¬tera classe dirigente. Successivamente si sono alterati tutti gli equilibri del sistema economico. E questo spiega perché la mia lettura è che l’appoggio di taluni settori finanziari, compresi taluni giornali, fu subalterno al disegno politico, non precedente. E oggi, che siamo alla fine di questa parabola, accade l’esatto opposto. Gli sconvolgimenti prossimi venturi riguarderanno gli equilibri economici e finanziari che sono usciti da questi vent’anni. Solo dopo si chiuderà la parentesi della Seconda repubblica anche per la fragilità che deriva dall’apice raggiunto dalla parabola berlusconiana, cosa che rappresenta al punto stesso la forza e la debolezza della situazione odierna, che è arrivata all’estremo, alla vetta.