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Quelli che volevano il “regime change”

Le vicende politico-giudiziarie dei primi anni No­vanta che portarono alla cosiddetta fine della Prima re­pubblica sono da anni descritte secondo la logica e i de­sideri dei “vincitori politici”. Molti ad esempio avranno sentito dire sino alla nausea che in realtà dopo il crollo del Muro di Berlino non c’era più bisogno di un partito come quello della Democrazia cristiana. Chi lo sostiene dimentica che Germania, Austria, Belgio, Olanda, il piccolo Lussemburgo e la Spagna sono ancora guidati da partiti di massa che si chiamano democratico-cristiani o cristiano-democratici o popolari a testimonianza dell’at­tualità dell’azione e del pensiero del cattolicesimo politi­co così come si è storicamente incarnato. Molti altri aggiungono che comunque il vecchio centrosini­stra era ormai in affanno e pertanto le inchieste giudiziarie altro non sono state che un certificato di una morte già avvenuta di quei partiti che avevano governato insieme per trent’anni. Anche questi noti opinionisti dimenticano che quei cinque partiti il 5 aprile 1992 avevano preso il 53,1% dei voti degli italiani, un livello mai raggiunto da nessuna coalizione da quindici anni a questa parte, cioè in tutta la Seconda repubblica nella quale le maggioranze parlamentari sono sempre state minoranze nel Paese.

I sondaggi berlu­sconiani, è vero, vanno ben oltre ma sono per l’appunto le illusorietà tipiche dei sondaggi che sono il trionfo della virtualità e spesso delle bugie. Insomma poco più dei tanti giochi del luna-park. Questi due gruppi di opinionisti ap­partengono quasi sempre alla sinistra politica, comunista, giustizialista ed ambientalista. D’altro canto quei partiti non avevano mai vinto e non possono certo consentire oggi di attribuire la loro vittoria del ‘96 (Prodi) o del 2006 (sempre Prodi) a iniziative sospette di inquinamento giu­diziario. La vittoria della sinistra agli archivi della storia deve essere consegnata limpida e trasparente come è stata sempre la sua vita e la sua prassi politica. Non contenti di queste sciocchezze documentalmente smentite dalle cose scritte sinora e da tante altre, questi opinionisti aggiungono poi che, scomparso il comunismo franato miseramente dal 1989 in poi, anche tutte le altre identità politiche, ormai, erano culturalmente esauste e andavano superate.

E così si iniziò un’affannosa ricerca di una terza via (chi non ricorda la riunione di Firenze del ‘99 tra Clinton, Blair, D’Alema e tutti gli altri leader della sinistra europea e americana?) con il risultato che a distanza di diciotto anni la memoria della sinistra è stata cancellata sia nella sua versione comunista che in quella socialista e i loro eredi brancolano oggi nel buio politico e culturale senza sapere chi sono e cosa voglio­no dopo essere passati per l’Asinello, la Margherita, l’Ulivo e altri nomignoli di vario tipo. Ciechi e sordi, ormai, in un mondo in perenne evoluzione. E tutto questo solo per non avere il coraggio che ebbe Gerardo Chiaromonte quando a Renato Altissimo, segretario del Partito liberale, e al sotto­scritto, confessò che il suo partito aveva scelto con Violante l’opzione giudiziaria per la conquista del potere.

E così avvenne che nella primavera del ‘93 i comunisti, con Bar­bera e Bassanini, tornarono al governo nel mentre venivano cacciati da tutti gli altri Paesi. Ad onor del vero, però, l’idea non fu dei comunisti, che con Occhetto, D’Alema e Veltroni tentarono di evolvere verso il Partito socialista europeo, ma da buoni provinciali furono sedotti dallo charme dei grandi borghesi. L’idea, infatti, fu di Eugenio Scalfari, di Paolo Mieli e di Carlo De Benedetti (dico solo le teste di serie) che ottenne­ro anche l’appoggio distaccato, come si conviene ad un re, di Gianni Agnelli e del suo simpatico ciambellano, Cesare di nome e Romiti di fatto. L’idea salottiera di chi tempo addietro aveva scritto La razza padrona nella quale già si intravedeva la voglia smodata di mettersi alla pari del gran­de capitalismo, era quella che con la caduta del Muro di Berlino non ci fosse più bisogno di mantenere quel patto tra la borghesia azionista, proprietaria di grandi giornali, e la vecchia Democrazia cristiana. Quel patto non scritto fatto all’epoca del­lo scioglimento del partito d’azione lasciava a quel circuito di grandi borghesi il governatorato della Banca d’Italia, la guida di Comit e Credit e di Mediobanca. La garanzia politica di quel patto la davano Moro e La Malfa. Con la caduta del Muro e la morte di Moro e La Malfa quel circuito borghe­se, irretito da Scalfari e Mieli, immaginò la costituzione di quel che veniva definito “il partito liberale di massa” alleato naturalmente con i residuati ideologici del vecchio Pci, che così consegnò a quei borghesi il cuore e l’anima.

Insomma il governo dell’establishment economico finanziario, o se volete il governo dei migliori come dicono lorsignori (rubo all’indimenticabile Fortebraccio l’appellativo) con una vi­sione élitaria del potere. Questo disegno, che pure poteva avere il profilo di un legittimo disegno politico e che mi fu rappresentato da Carlo De Benedetti che mi chiese l’adesio­ne, puntava a sostituire il governo Dc-Psi-Pli-Pri-Psdi. Per farlo, però, bisognava battere questi partiti o incriminare i maggiori dirigenti e qualche volta arrestarli. Fu più facile la seconda cosa. E così il finanziamento, illecito solo perché non dichiarato, divenne corruzione e concussione su denuncia degli im­prenditori cui veniva garantito un rapido patteggiamento e un silenzio nelle aule giudiziarie, sino a quando non vennero le norme del giusto processo nel ‘97-‘98 che rese nulle tutte le cose non ripetute nelle aule giudiziarie in un regolare contraddittorio con la difesa. Ma intanto la distru­zione politica dei partiti di governo era già avvenuta. Il Pci e l’Msi, che notoriamente non avevano bisogno di risorse, vennero salvati e passò sostanzialmente sotto silenzio quel fatto che mentre un leghista ciondolava il cappio a Mon­tecitorio, un suo collega di partito intascava duecento mi­lioni da Ferruzzi. Era la gestione politica di Tangentopoli.

Quando gli opinionisti di cui sopra irridono al complotto dimenticano tutto questo o quando ironizzano sulla presen­za di qualche manina straniera dimenticano anche l’ultima intervista di Edward Luttwak al Corriere della Sera e il ruolo di Michail Leeden nonché quello dell’agenzia Kroll che regalò una targa ad Antonio Di Pietro, così come cancella­no dalla memoria l’azione di alcuni dirigenti del ministero dell’Interno premiati dalla Cia. Come sempre capita, però, i diavoli fanno le pentole ma dimenticano i coperchi. Così dai grandi borghesi è uscito Silvio Berlusconi, l’esatto con­trario di ciò che essi volevano. Quello che veniva ritenuto il parvenu della finanza li ha messi lentamente sotto scacco e insieme a loro l’intera sinistra, ormai priva di ogni identità. È la tragica eterogenesi dei fini che ha messo in ginocchio il Paese, e quelli che ora sostengono i legittimi impedimenti o i vari lodi salvacondotti sono gli stessi che ieri sparavano a palle incatenate contro i dirigenti della Prima repubblica con il risultato che l’Italia oggi è l’unico Paese europeo che non ha più un grande Partito socialista, né uno democri­stiano e men che meno uno liberale, cioè le grandi culture politiche che governano l’Europa.

Ed è inutile ripetere che non si è ancora risolto il tema del finanziamento dei partiti nonostante che quello pubblico sia aumentato di ben otto volte rispetto ai primi anni Novanta. Nelle tragedie c’è sempre la comicità dei fatti e dei perso­naggi ma anche l’indignazione per un Paese sfarinato ed in preda alla confusione con un’economia che non cresce e una classe dirigente che non ha più né scuola, né esempi.


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