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Chi sarà l’erede di Giovanni Bazoli?

Il potere non è tale se non si esprime nella longue durée, se non si consolida, se non attraversa il tempo lasciando un segno. Vi sono biografie e episodi fulminanti, certo. Ma è la lunga durata che fa la differenza tra i grandi e i piccoli, i saggi e gli avventurieri, i maestri orologiai che comandano complessi meccanismi e quelli che girano la clessidra per una notte.

Chi sono gli orologiai dell’Italia repubblicana? Camilla Conti con questo libro prova a dare una risposta e – forse inconsapevolmente – ne individua tre che rappresentano il potere perché sono anche la lunga durata: Giovanni Bazoli, Giuseppe Guzzetti e Romano Prodi. Due banchieri e un economista che si fa politico. Il trio è l’espressione di un soft power dotato di un know-how formidabile: la finanza di Bazoli e Guzzetti, le relazioni internazionali e l’esperienza di governo di Prodi. I due banchieri sono il volto e il genio di un potere finanziario che non ha trovato ancora degni eredi e – senza la Mediobanca di Cuccia e Maranghi – giocano in coppia la difficile partita di un risiko bancario e industriale in un Paese più preda che predatore; il padre dell’Ulivo, nonostante l’asprezza e le incomprensioni con Matteo Renzi, resta il punto di riferimento di chi vuole tessere la tela di un’Italia europea ma non berlinocentrica, atlantica ma soprattutto mediterranea, realista con Mosca e guardinga con i falchi di Washington. E la quarta carta del mazzo, Matteo Renzi, cosa c’entra con le prime tre? Se osserviamo la retorica e la liturgia della rottamazione, la risposta è una sola: niente, zero, reset. In realtà il presidente del Consiglio è anche il prodotto di quella storia. Certo, in lui vi sono elementi di rupture berlusconiana, il suo uso dei media ne fa il più vicino erede del Cavaliere, ma non è affatto vero che il fenomeno fiorentino sia distante da quel mondo e l’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica ne è un perfetto esempio. Al Quirinale c’è un prodiano. La militanza nella Margherita, lo scoutismo di Renzi, i richiami continui dei suoi collaboratori più stretti all’eredità di Giorgio La Pira, non sono un episodio, ma parte fondamentale della sua storia che non si dissolve con la sua ascesa a Palazzo Chigi, ma emerge ogni volta che c’è un passaggio delicato. E’ un’arte politica che Renzi conosce, un uso del potere che sa essere cinico e nello stesso tempo prudente. Mai banale, spesso sorprendente nelle accelerazioni, come nel caso della partita del Quirinale.

Quello di Matteo Renzi è il 63° governo dal 1945 a oggi, in media l’Italia ha avuto un governo all’anno e i presidenti del consiglio sono stati ventisette.  Il suo esecutivo sciacquato in Arno è in carica da un anno – un battito di ciglia per la storia – ma il “consumo” di informazione (e deformazione) sulla sua avventura ha un rate, un’intensità senza precedenti. Tutto questo ha molto a che fare con internet, la tecnologia, le connessioni, il tempo reale e l’immaginario, è la biografia in bit di un “leader” che non è ancora un “costruttore”. Renzi è un sottosopra del Partito democratico giunto a Palazzo Chigi per suicidio dell’avversario a destra e rottamazione rapida dell’ennemi a gauche. E’ un potere che si sta consolidando. E’ destinato a essere un pezzo fondamentale del risiko italiano, come Guzzetti, Bazoli e Prodi. E come lo furono – su altre posizioni – Enrico Cuccia e Silvio Berlusconi. E’ la realtà italiana che si impagina in cronaca che poi diventa storia. Il libro di Camilla Conti ha questo gran pregio: fissa in pagina questo movimento e ne svela la sua forza, la lunga durata. E’ la nostra storia.

Mentre la porta girevole di Palazzo Chigi non si fermava, l’Italia diventava una potenza industriale e finanziaria. Tra le macerie fumanti del dopoguerra, emergeva un potere stabile, un sistema di imprese e banche dove la governance non era il problema, ma la forza: imprese del capitalismo familiare e istituti bancari guidati da personaggi che avevano da proporre non una versione ma una visione dell’Italia.

Francis Fukuyama nel suo libro intitolato Trust dedica al fenomeno del capitalismo familiare un capitolo intitolato “Italian Confucianism”, sono pagine scritte nel 1995 dove emergono luci e ombre, punti di forza e debolezze strutturali, la dinamicità del Nord e del Centro – la Terza Italia – e la paralisi del Sud, parallelismi con la dinamica della società cinese, Taiwan, Hong Kong, il miracolo hi-tech della Silicon Valley. La crisi finanziaria scoppiata nel 2008, il credit crunch e la recessione hanno riaperto il dibattito sulla validità del modello italiano, ma non ci sono dubbi sulla presenza della longue durée, la persistenza del tempo e dell’azione di un gruppo dirigente che nel bene e nel male ha provato a disegnare un Paese costruito sul debito pubblico e sul patto di sindacato, il nocciolo duro di un Paese a elevato tasso d’instabilità.

Questo potere aveva bisogno di orologiai pazienti e tenaci per essere puntuale. Né troppo avanti né troppo indietro. Sincronizzato sull’originale fuso orario dell’Italia. Figure che potevano nascere solo dalla cultura della Democrazia Cristiana, non altrove. La durezza del Partito comunista era inconciliabile con la finanza, i suoi progetti internazionalisti, le sue fughe ideologiche, il suo smarrimento post-sovietico. Non si vive di sola Utopia, dibattito e seduta di autocoscienza. La storia d’Italia restava quella di un popolo di mercanti che aveva fondato le prime banche. Il contenitore naturale di quel popolo era la Democrazia Cristiana, la fabbrica di una classe dirigente che di volta in volta pencolava tra destra e sinistra, ma restava sempre al centro della Storia. Mai in minoranza, sempre perno di tutte le alleanze. E’ da questo racconto collettivo, l’autobiografia della nazione, che emerge un gruppo di persone dove il cattolicesimo democratico diventa il carburante del motore dei makers italiani.

E’ la storia di un manipolo di timonieri audaci partendo dall’esperienza nella Dc e nei movimenti cattolici avvia un percorso fatto di fedeltà al partito e autonomia dell’azione nella società. Nasce nell’immediato dopoguerra con i “professorini”: Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira. La loro forza propulsiva è il cattolicesimo, l’idea è quella di non lasciarlo alla pura speculazione teorica, chiuso in sacrestia o tra le aule universitarie, ma di realizzarlo nella società in tutti i suoi settori. Molti di loro si erano formati all’Università Cattolica di Milano, dominata dalla figura di padre Agostino Gemelli, tanto orgoglioso del suo lavoro di padre spirituale e insegnante da scrivere nel 1946 a Alcide De Gasperi dopo il suo intervento al Congresso della Dc: “Mi ha fatto molto piacere l’elogio di Dossetti e di Fanfani; sono due ottimi elementi, frutto dell’educazione del nostro Ateneo”.

Ecco, se qualcosa manca al nostro tempo è questo: un luogo di produzione culturale che plasmi il presente e si proietti nel futuro. Bazoli, Guzzetti e Prodi sono figli della cultura cattolica e di una università che si incaricava di dare classe dirigente al Paese. Il correntismo democristiano aveva mille difetti, ma era una catapulta di talenti. E oggi? Renzi è frutto delle convulsioni post-comuniste, la lunga crisi del Pci ha trovato una risposta e un leader nuovo. E’ la politica che – sempre – trova soluzioni inaspettate alla crisi dei partiti. La transizione post-comunista con Renzi è finita, si apre un nuovo capitolo della storia. Sempre nel segno di quel filone culturale, il cattolicesimo democratico, che ha dato prova di essere il più concreto e longevo fra quelli che mise in campo la Democrazia Cristiana. E la finanza e l’industria? Quella delle banche italiane è una storia che continua nel segno di Bazoli e Guzzetti perché all’orizzonte non è ancora emerso chi possa raccoglierne l’eredità. E la ragione è di una semplicità disarmante: l’assenza di un disegno per l’Italia e non solo per i mercati. In molti hanno provato a cimentarsi in quel campo da gioco. Ma al netto delle resistenze del sistema e della tendenza di ogni potere consolidato a farsi dispotico, la verità è che gli uomini nuovi del caveau hanno fallito l’impresa. Non basta avere frequentato Harvard per essere un grande banchiere, serve una materia prima che non si compra con un master overseas, è fatta di durezza dell’esperienza, di solitarie letture e meditazioni, di sconfitte, di grande potere che si sposa con grande responsabilità. Ho la netta impressione che toccherà a loro, Bazoli e Guzzetti, inventare la successione, ordinare i nuovi sacerdoti della finanza italiana, trovare e educare “gli ottimi elementi” che Agostino Gemelli allevò nella sua università. Tenete d’occhio le lancette, il tempo vola e gli Orologiai sono in laboratorio.



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