I faticosi processi di svalutazione interna compiuti soprattutto da Grecia, Portogallo e Spagna sono stati in gran parte vanificati dal fatto che il benchmark tedesco ha continuato a muoversi in senso opposto alle necessità del riequilibrio europeo.
La Germania dal 2009, contemporaneamente alle svalutazioni interne dei paesi indebitati, ha persistito a sua volta sulla strada della svalutazione interna – con un taglio sulle dinamiche salariali nell’industria pari al 2,5% l’anno rispetto alla produttività – nel momento in cui il riequilibrio europeo richiedeva esattamente l’opposto. Conseguenza di questa politica è stato l’ulteriore allontanamento del cambio reale tedesco dal suo valore di equilibrio e l’impossibilità – per i Paesi in deficit – di beneficiare dei recuperi di competitività: nonostante gli sforzi di aggiustamento il settore industriale di questi Paesi ha continuato a soffrire di perdite di capacità produttiva. L’esatto contrario di quanto è invece accaduto in Germania.
Nelle stime della Commissione europea, l’avanzo esterno dell’area della moneta unica raggiungerà quest’anno la cifra record di 330 miliardi di euro, pari al 35% del Pil. La parte del leone la farà ancora la Germania (con quasi 240 miliardi, l’8% del Pil).
In definitiva, sembrerebbe quasi che per i Paesi indebitati dell’eurozona valga una legge punitiva, che non premia i virtuosi: il miglioramento dei conti con l’estero è per chi persevera nella recessione (Italia), non per chi fa uno sforzo di svalutazione interna (Spagna) emulando il modello tedesco.
La ricetta sul successo tedesco, che i Paesi indebitati (Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia) devono contrastare con un difficile processo d’imitazione – reso più difficile dalla continua mobilità del benchmark tedesco (e quindi dal suo cambio reale che continua ad allontanarsi dal valore di equilibrio) – si basa fondamentalmente sull’aumento della produttività sbilanciata e sul taglio ai salari nel settore industriale. Da queste misure ne è derivata nello scorso decennio – per la Germania – un’inflazione al consumo di oltre un punto all’anno più bassa rispetto alle altre economie; inflazione che – per consentire un riequilibrio – avrebbe invece dovuto essere più alta di oltre un punto all’anno. Nonostante gli sforzi dei Paesi indebitati, in primis la contrazione dei prezzi realizzata fra 2009 e il 2014 da Grecia (10%) Portogallo (6,5%) e Spagna (4%) relativamente ai prezzi tedeschi, i divari competitivi, prima causa della crisi dell’euro, sono ancora molto ampi.
Per superare il problema degli squilibri occorrerebbe che la ripresa europea si accompagnasse a un surriscaldamento dell’economia tedesca che ne porti l’inflazione al di sopra delle altre economie. In tal senso potrebbe risultare efficace l’introduzione del minimum wage in Germania e una maggiore pressione salariale in un’economia che ha tassi di disoccupazione a minimi storici anche se perché simili cambiamenti sortiscano qualche effetto è indispensabile che il Quantitative Easing della Bce abbia successo, nel senso sia di riuscire a spingere le dinamiche di prezzi e costi in Germania durevolmente sopra il 2% e verso il 3% sia di essere capaci di resistere alle pressioni a terminare il Qe che a quel punto verranno da Berlino.