Con notevole sorpresa di tutti i commentatori strategici, il presidente Barack Obama affermò nell’agosto 2014 che gli USA non avevano una precisa strategia per neutralizzare e distruggere l’ISIS. Taluni punti della strategia USA erano comunque chiari: limitarsi ai bombardamenti aerei per arrestare l’avanzata dell’ISIS, logorarlo e sostenere, con rifornimenti di armi e addestramento, il governo di Baghdad, quello regionale del Kurdistan iracheno e le milizie sunnite disposte a contrastarlo e guadagnare tempo per ricostituire le forze terresti irachene. Erano anche chiari gli obiettivi politici: eliminare con un logoramento progressivo il Califfato transnazionale, il cui mito attraeva migliaia di giovani; dare priorità all’Iraq, mantenendone l’unità con un governo e forze armate di coalizione fra le sue varie componenti, sciita, sunnita e curda; evitare che il paese entrasse nell’orbita dell’Iran.
Sotto la pressione delle circostanze, l’azione americana è stata estesa alla Siria, soprattutto per la difesa di Kobane e per evitare manovra per linee interne fra al-Raqqa e Mosul. La strategia di logoramento aereo non ha dato sinora risultati del tutto soddisfacenti, e tanto meno decisivi, sia in Iraq che in Siria. Nel primo, gli USA sono stati colti di sorpresa dall’attacco a Tikrit, all’inizio di marzo, mentre pensavano di attaccare Mosul a aprile-maggio. Volevano accerchiare i miliziani, spintisi più a Sud nella valle del Tigri verso Baghdad. L’anticipo dell’attacco ha causato un eccessivo affidamento sulle milizie sciite, mentre la preparazione delle dieci brigate programmate dagli USA per l’esercito governativo procede a rilento; i sunniti partecipano solo marginalmente alla lotta contro l’ISIS; solo i peshmerga curdi non hanno deluso le aspettative americane. Gli Usa si trovano però in difficoltà verso di loro. Non sanno come soddisfare le aspirazioni del Kurdistan a una completa autonomia, senza contrasti con Baghdad e con Ankara.
La strategia per la Siria è nella più completa confusione. Tanto per aumentare il caos, il Segretario di Stato USA, John Kerry, ha accennato a un eventuale accordo, se non con Assad, almeno con il governo e le forze armate siriane perché attacchino l’ISIS, beninteso con la benedizione di Teheran e di Mosca. Anche se l’esercito nazionale siriano è l’unica forza organizzata e multiconfessionale, in grado di evitare una situazione di tipo libico o yemenita, si tratterebbe di un rovesciamento di alleanza a favore dell’Iran, che creerebbe grossi contrasti con i sauditi e i turchi.
Anche per l’Iraq sussistono numerose difficoltà e incertezze. Come detto, gli USA volevano per prima cosa attaccare Mosul. Il governo di Baghdad, forse su pressione di Teheran li ha preceduti attaccando Tikrit, con circa 25.000 combattenti, quattro quinti dei quali sono milizie sciite, armate e inquadrate dalle forze speciali dei pasdaran. Fra sunniti e sciiti stanno aumentando i contrasti, anche per le violenze delle milizie sciite contro la popolazione sunnita, delle città riconquistate. La dissociazione dei sunniti dall’ISIS e il mantenimento dell’unità dell’Iraq stanno divenendo un miraggio. I curdi iracheni sono appoggiati dalla Turchia. Ankara non ha escluso un suo intervento nella riconquista di Mosul. Non vuole lasciare aumentare l’influenza dell’Iran. Vuole proteggere i sunniti. Non vuole però un eccessivo rafforzamento dei curdi. Il PKK – centrale nelle capacità operative dei curdi, soprattutto in Siria – non è per ora disponibile a lasciare le armi, come vorrebbe Ankara. I legami fra i curdi iracheni, siriani e quelli abitanti in Turchia si stanno rafforzando. L’incubo dello Stato curdo previsto a Sèvres nel 1919 influisce sulle percezioni di Ankara.
I problemi a cui gli USA sono confrontati sono forse irrisolvibili. Washington non intende schierare truppe da combattimento. Deve fare affidamento sulle forze locali, che perseguono obiettivi contrapposti. Hanno sempre maggior bisogno dell’Iran, sia in Iraq sia in Siria. Non se la sentono ancora di rompere con i sauditi e con i turchi, per puntare sulla carta iraniana, condizionando forse un accordo sul nucleare all’impegno di Teheran di rispettare l’integrità territoriale dell’Iran. Obama deve mettere sul conto l’opposizione del Congresso, divenuta evidente nella recente visita trionfale di Netanyahu. Mentre i comandanti USA hanno un braccio legato dal divieto di impiegare truppe di combattimento a terra, la Casa Bianca l’ha per la frattura con il Congresso. E’ perciò costretta a barcamenarsi alla meno peggio. L’unica strategia possibile rimane quella di logoramento, per certi versi simile a quella seguita nel Vietnam, come ha suggerito il senatore McCain. Baghdad ha deciso solo all’inizio di marzo la costituzione di una Guardia Nazionale. E’ però restia a porla alle dipendenze delle varie province, per non dare spazio ai sunniti. La vuole unitaria, in modo da consentirne il controllo da parte degli sciiti, che già dispongono dei 100.000 miliziani della “Mobilitazione Popolare, inquadrata dall’iraniano Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica.
Comunque sia, l’ISIS è stato arrestato e posto sulla difensiva. Molti foreign fighters, arruolatisi per denaro, stanno disertando. I miliziani radicalizzati però combattono a Tikrit “come diavoli”, come detto da un ufficiale iracheno. La riconquista di Mosul non sarà semplice, anche se il Califfato potrà destinare alla sua difesa solo qualche migliaia di combattenti. Il grande impiego di mine e i tiratori scelti saranno un osso duro da vincere. Aumentano le proteste delle popolazioni dei territori controllati dal Califfato, sia per le violenze sia per la riduzione dell’efficienza dei servizi sociali, “fiore all’occhiello” di al-Baghdadi. I bombardamenti USA hanno duramente colpito i campi petroliferi e le raffinerie della Siria e dell’Iraq settentrionali, essenziali per il suo finanziamento. Dall’inizio dei bombardamenti, gli introiti del petrolio sarebbero diminuiti a un terzo. Diventa sempre più difficile trasformare “l’oro nero” in dollari. Ciò avrà di certo negative ripercussioni, anche sull’attrazione esercitata su nuove reclute. Le profezie di Maometto sono una cosa, i soldi un’altra. Gli effettivi di cui dispone il Califfato non sono sufficienti a difendere il suo territorio. Non è da escludere che il Califfato crolli in primavera-estate.
L’Italia e l’Europa sono molto preoccupate, soprattutto dopo l’attentato al museo di Tunisi, per le dichiarazioni d’obbedienza al Califfo fatte da varie milizie jihadiste, dal Nord Africa alla Nigeria e dalla Somalia al Caucaso. Esse non rafforzano il Califfato, se non dal punto fra obiettivi contrapposti di vista comunicativo. Non bisogna confondere il fumo con l’arrosto. Ogni milizia mantiene la propria autonomia operativa. Un coordinamento, sia verticale che orizzontale, è impraticabile.
A parer mio la minaccia dell’ISIS in Africa è sopravvalutata. Comunque sia, la sua sopravvivenza si gioca in Medio Oriente, in primo luogo a Mosul. Non dobbiamo lasciare gli USA da soli a cavarsela con i loro dubbi, cercando la quadratura del cerchio, limitandosi a criticarli per quanto fanno e non fanno. Non è sulla Libia che si deve puntare, sull’onda delle emozioni del brillante servizio mediatico del Califfato. Gli affiliati all’ISIS saranno eliminati dalle milizie locali libiche. Per male che vada, lo faranno l’Egitto e l’Algeria. Rimarrà comunque al-Qaeda, nascosta con le sue reti nella popolazione. Rimane il vero pericolo, con il suo collegamento con i gruppi terroristi europei.