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Finmeccanica, perché l’Italia deve giocare all’attacco sulla Difesa

I Paesi della Nato si sono impegnati nel Vertice del Galles dello scorso settembre a contrastare la riduzione delle spese militari in atto.

Lo scenario internazionale, e in particolare la crisi in Ucraina, con le iniziative della Russia, e gli attacchi dell’autoproclamatosi “stato islamico” e di altri gruppi fondamentalisti islamici in Medio Oriente e in Africa, richiedono una più forte risposta da parte dell’Alleanza.

Nelle conclusioni approvate dai capi di Stato e di Governo vengono indicati questi obiettivi per i paesi che non destinano alla difesa il 2% del Pil, come concordato in ambito Nato:
– arrestare qualsiasi riduzione nelle spese per la difesa;
– puntare ad aumentarle quando il Pil dovesse crescere e puntare verso il 2% nel prossimo decennio per raggiungere gli obiettivi di capacità e colmare le carenze di capacità della Nato.

CRESCITA DELLA SPESA MILITARE EUROPEA 

Il presidente del Consiglio Renzi è intervenuto nel dibattito, e lo ha poi evidenziato nella conferenza stampa finale, per sottolineare che la crescita della spesa militare europea sarebbe molto più facile se non venisse conteggiata ai fini del Patto di Stabilità.

Ovviamente, ha voluto così ribadire che solo se l’Europa riconoscerà il carattere strategico delle spese militari potrà effettivamente migliorare le sue capacità di difesa. Il principale problema europeo non è, infatti, il basso livello di spesa, ma il suo utilizzo con la mancata, o comunque debolissima, integrazione militare.

A preoccupare è la qualità più che la quantità. Se le dimensioni delle Forze Armate europee sono tali da assorbire gran parte delle risorse, anche un livello di investimento pari al 20% del bilancio, come previsto dalla Nato, non consente di avere uno strumento efficiente perché mancheranno i fondi per l’addestramento o la manutenzione o, persino, per poter operare (ed è proprio il caso italiano, oltre che di molti altri).

Inoltre, l’inevitabile passaggio a Forze Armate professionali genera un altrettanto inevitabile aumento del costo del personale, a meno di accettare una pericolosa diminuzione della sua qualità.

SPESE MILITARI DEI PAESI NATO

Un rapporto dell’European Leadership Network ha recentemente riportato l’attenzione sulle spese militari dei Paesi Nato nel 2015. Non si sono ancora registrati cambiamenti nel quadro complessivo.

Lo studio evidenzia che dei 14 Paesi esaminati, solo uno (piccolo) supera il 2% del Pil, sei (fra cui uno medio) hanno aumentato le loro spese, sei (fra cui Regno Unito, Germania e Italia) le hanno diminuite e uno (Francia) le ha mantenute allo stesso livello.

Vanno, però, tenuti presenti tre aspetti non citati nello studio:
1) i dati Nato, come quelli della European Defence Agency, sulle spese militari non sono sufficientemente omogenei per cui i confronti vanno presi con grande cautela;
2) i dati consuntivi più recenti sono soggetti a correzioni legate alle variazioni intervenute in seguito;
3) i dati preventivi sono solo indicativi.

Basti osservare il caso italiano: solo nell’ultimo biennio sono state considerate nelle nostre spese militari anche quelle sostenute dal Ministero dello Sviluppo economico per le acquisizioni, ma non quelle per Research & Technology (R&T); resta difficile quantificare il contributo offerto dalle spese per le missioni internazionali a favore di addestramento e funzionamento; in compenso continuano ad essere considerate le spese per i Carabinieri e altre di carattere generale.

Emblematico è il caso del programma navale votato dal Parlamento a fine 2013 e contrattualizzato con oneri a partire da quest’anno per un valore di 5,4 miliardi di euro in un ventennio, di cui lo studio non ha tenuto conto.

STRATEGIA ITALIANA

A colpire i commentatori italiani è stato, però, soprattutto il riferimento del rapporto ai “Big Three” (Regno Unito, Germania e Francia), inserendo invece l’Italia fra gli altri.

Non è la prima volta che a livello europeo al nostro Paese viene attribuito un ruolo secondario nel campo della difesa e non sarà nemmeno l’ultima. Ci sono voluti venti anni di missioni internazionali per acquisire una maggiore credibilità ed è sempre elevato il rischio di comprometterla.

Eppure anche recentemente non ci siamo tirati indietro nell’impegnare parecchie centinaia di uomini nell’addestramento delle Forze Armate afghane e in quelle irachene che combattono l’autoproclamatosi “stato islamico”. Così come abbiamo manifestato la nostra disponibilità a un’eventuale missione Onu per stabilizzare la Libia se le condizioni lo consentiranno.

Non essendoci per ora le condizioni economiche e finanziarie per aumentare le spese per la difesa, la strategia italiana dovrebbe, però, puntare a:

– evitare ulteriori tagli e cercare di recuperare quanto perso negli ultimi due anni, in linea con l’impegno alla base della Legge 244 del 2012 sulla revisione delle Forze Armate; in quest’ottica è importante non dare ulteriori messaggi contraddittori per quanto riguarda la nostra partecipazione ai programmi internazionali per nuovi equipaggiamenti;

– fare comprendere alla nostra opinione pubblica che l’instabilità della sponda sud del Mediterraneo e della Libia in particolare rappresentano una diretta minaccia alla nostra sicurezza e dobbiamo farcene carico; la stessa decisione tedesca (un paese molto prudente in questa materia) di aumentare le spese militari dal 2016 dovrebbe farci riflettere sui rischi che stiamo correndo;

– utilizzare le indicazioni che emergeranno dalla prossima pubblicazione del Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa per accelerare riorganizzazione, efficientamento e ammodernamento del nostro strumento militare.

Qui la versione integrale dell’articolo 

Michele Nones è il direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.


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