Quando il giornalista dell’Independent Kim Sengupta ha intervistato Moatez, un giovane siriano ferito dall’artiglieria di Assad, l’uomo ha raccontato di essere un maestro. Poi ha aggiunto che era pure un attivista, alla fine ha ammesso di essere un combattente ─ ha detto di appartenere dell’Esercito siriano libero, il primo gruppo di ribelli organizzati militarmente contro Assad (e sostenuti dall’Occidente), che adesso è molto in declino.
L’ospedale in cui è stato curato Moatez è lo Ziv Medical Centre di Safed, cittadina della Galilea che il fiume Giordano divide dalle alture del Golan. Il «ciuffo selvaggio di capelli» e una «enorme barba folta», però, hanno fatto pensare a Sengupta che Moatez potesse non essere semplicemente un combattente dell’FSA, ma un membro della Jabhat al Nusra, affiliazione qaedista in Siria, molto attiva negli ultimi mesi nelle aree tra il confine israeliano e siriano. E dunque, Israele aiuterebbe a guarire un combattente di al Qaeda? Uno dei suoi nemici naturali? Non ci sarebbe da scandalizzarsi e non sarebbe nemmeno il primo caso.
Il Wall Street journal aveva scritto che Israele stava aprendo le sue frontiere con la Siria al Fronte qaedista, e segno evidente di questo era la facilità con cui al Nusra aveva preso il controllo del posto di confine di Quneitra.
Ci sono quattro ospedali israeliani che da diverso tempo stanno curando i siriani nelle zone di confine, più alcune postazioni militari da campo per il primo soccorso. Dall’inizio della guerra Israele avrebbe fornito assistenza medica a circa 2.000 siriani. Molti dei malati sono donne e bambini, ma altrettanto alto è il numero di “uomini in età da guerra”. La politica ufficiale di Tel Aviv è di non commentare come avviene il trasporto di feriti. I medici, come i soldati degli ospedali da campo, non ne accertano l’identità ─ o meglio, dicono di non farlo, ma è difficile pensare che i servizi interni israeliani abbiano lacune su chi entra nel proprio territorio. «Una volta fatto il trattamento sanitario, li portiamo alla frontiera e li lasciamo liberi di andare per la loro strada», aveva spiegato un funzionario militare.
L’aiuto umanitario nei confronti dei feriti siriani, assume anche tratti di strategia geopolitica. Il Golan è un territorio sensibile per Israele, non soltanto come asset turistico-economico per posti come il monte Hermon (al confine con Siria e Libano, punto a nord della striscia di demilitarizzazione dell’Onu). Perdere le alture di confine, significherebbe perdere un’area di cuscinetto e avere i nemici sull’uscio di casa.
Da quando la consistenza dei combattenti anti-Assad è iniziata ad aumentare ─ e questo è coinciso con l’arrivo nella zona di al Nusra (che è una forza più numerosa e organizzata di molti degli altri gruppi ribelli) ─, Israele ha fornito una pseudo copertura ai ribelli (quindi, ora, anche ad al Nusra) camuffandola da shooting-back, un’autodifesa per i combattimenti nell’area. Già, perché se da un lato ci sono i qaedisti, dall’altro ci sono nemici ancora peggiori per Tel Aviv: come se non bastasse l’esercito governativo di Assad, in aiuto sono intervenuti gli uomini di Hezbollah, e tutto avviene sotto la regia degli iraniani. Come spesso accade in guerra, c’è da scegliere il male minore ─ e “il nemico del tuo nemico diventa tuo amico”.
Il 23 settembre scorso un missile Patriot israeliano aveva abbattuto un caccia Su-24 siriano decollato dalla base siriana di Saikal, che aveva sconfinato sul Golan ─ l’utilizzo di un missile da difesa tattica come il Patriot, un armamento da un milione di dollari, ha un valore rappresentativo. Colpi di mortaio siriani, erano già caduti erroneamente (almeno dalle dichiarazioni ufficiali), sul territorio israeliano, ai quali IDF aveva risposto. Mentre precedentemente, a marzo del 2014, un raid aereo israeliano aveva colpito un centro di comando dell’esercito siriano nella zona di Quneytra ─ un diretto favore ai ribelli. E ancora, droni israeliani avevano centrato dei mezzi militari di Hezbollah, che stavano trasportando armamenti di rinforzo nell’area. L’episodio più importante però, è quello che è successo a gennaio di quest’anno, quando in un attacco aereo israeliano sono stati uccisi il generale Mohammed Ali Allah Dadi, della Guardia Rivoluzionaria iraniana, e Jihad Mughniyeh, capo delle operazioni militari di Hez sul Golan e figlio di Imad Mughniyeh, storico comandante militare degli Hezbollah ucciso nel 2008 a Damasco (in un’esplosione per cui i suoi compagni hanno sempre incolpato il Mossad).
Episodi che si sono rivelati spesso argomentazioni per la propaganda del regime di Damasco. Una volta Assad in un’intervista al magazine Foreign Affairs disse: «Come puoi dire che al-Qaeda non ha una forza aerea? Ha la forza aerea israeliana».
Tenere il conflitto lontano dal Paese, in questo momento per Israele significa tenere distanti Assad, Hezbollah e l’Iran (i nemici veri); e dunque procede con operazioni di supporto trasversale, a chi combatte i suoi nemici. Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare (e uomo che avrebbe dovuto diventare ministro della Difesa se l’Unione Sionista avesse vinto le elezioni) aveva spiegato al WSJ che Iran e Hezbollah «sono la principale minaccia per Israele, molto più dei radicali islamisti sunniti». Loro «comunque restano un nemico», aveva precisato dopo, pur ricordando che “loro” non stanno attaccando Israele ma la Siria & Co. (tanto per dire di quella storia del “nemico del tuo nemico…etc etc”) ─ sulla stessa linea è il ministro della Difesa in carica Moshe Ya’alon, che ha più volte sostenuto che l’Iran ha intenzione di aprire un nuovo fronte sul Golan sfruttando i combattimenti della guerra civile sirian.
Un altro esempio di guerra proxy, come è stata più volte definita quella siriana. Il link tra Israele e al Nusra è una questione di cui si parla da tempo: un’intesa, segreta, momentanea. Le conseguenze di questo avvicinamento con il terrorismo sunnita qaedista, sarà cosa risolvere poi.