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Il 1992 italiano visto da Washington

Giovanni Falcone

Io ero a Washington nel 1992 quando Falcone venne in visita negli Stati Uniti. L’ambasciatore italiano invitò a cena me e il giudice Webster dell’Fbi. Lo incontrai in quella occasione. Webster mi disse di essere preoccupato per l’incolumità di Falcone e mi chiese di provare a parlarne con lui. Lo feci: chiesi al giudice italiano se il suo sistema di sicurezza era di stampo professionale o se era improvvisato. La professionalità in questo caso consiste, per esempio, nel fatto che le entrate e le uscite da Palermo sono invisibili. Non esiste una protezione fisica assoluta, ma essere invisibile fa sì che nessuno sa quando può attaccarti. Falcone mi rispose: “Sì, è tutto a posto”. Il giudice Webster mi chiese di verificare se era così, di fare altre domande a Falcone. Il dialogo proseguì e alle mie domande seguirono risposte non evasive, ma ottimiste. Se avessi saputo che lui faceva uso di jet privati per viaggiare da Palermo, avrei capito che era in grave pericolo, che non aveva sicurezza professionale. Se tu arrivi in un posto come Palermo, che non è Aspen in Colorado, per prendere un aereo privato è facilissimo che tu sia naturalmente sotto continua osservazione. Una volta che l’obiettivo è osservato non c’è più barriera di security che tenga. Bisognerebbe che l’obiettivo fosse molto difficile da identificare. E quindi non dare nell’occhio e semmai attuare il metodo della contro sorveglianza. Con Falcone ebbi solo quel colloquio e solo su quell’argomento, come da sollecitazione di Webster. Temevo però che il sistema di security che doveva proteggere il giudice italiano fosse dilettantesco. In Italia d’altra parte si tende a preferire l’aspetto cerimonioso della security. L’andare in giro con una scorta vistosa, circolare su auto con lampeggianti è il modo migliore per rendersi visibili e quindi esposti ad attacchi. Purtroppo, dopo poco tempo da quelle riflessioni vi fu la strage di Capaci. Per questo, ricordo ancora con nitidezza e amarezza quella cena a Washington.

Antonio Di Pietro
Antonio Di Pietro non era il capo della Procura di Milano ma certa-mente era molto famoso a quel tempo. Nel 1992 venne a Washington e lo incontrai poiché ero capo del New Italy Project promosso dal Csis e spesso in quella sede ospitavamo italiani importanti. Questo programma infatti serviva per segnalare alle élites americane di quei tempi che l’Italia non era solo spaghetti e Toscana e che c’era un’Italia tecnologica, un’Italia economica, e così via, e quindi un’Italia moderna. Di Pietro quindi era per noi un buon testimonial, io lo ricevetti, lo salutai e non lo rividi se non diversi anni dopo. Allora, la mia opi¬nione di Di Pietro era che lui fosse una specie di eroe. In quel periodo i fenomeni di corruzione con Craxi e i suoi amici al potere in Italia erano rapidamente evoluti da un’antica, nascosta e modesta corru¬zione verso una sfrontata corruzione latinoamericana, in cui la gente corrotta sfoggiava la corruzione, si vantava della corruzione, sorrideva se non eri corrotto. Francamente, vedevo Di Pietro come una persona che attaccava questa degenerazione. Non sono un giurista e non avevo allora tutti gli strumenti per capire come stavano davvero le cose: vedevo un’immagine solo parziale della verità. Non vedevo il fatto che per attaccare il diavolo lui aveva tirato giù tutte le barriere della legge che proteggevano non solo questo diavolo, ma che proteggono tutti. Se per abbattere il diavolo alimenti un grande vento che poi sbatte tutti a terra, anche gli innocenti, allora commetti un grande sbaglio. Non si può mettere le persone in prigione preventivamente e verificarne il rinvio a giudizio solo successivamente. Questa è una aberrazione della legge. Adesso sono consapevole che anche Di Pietro ha fatto molto per danneggiare la giustizia e questo è innegabile.

Le privatizzazioni
Non ricordo molto dei particolari che a voi italiani stanno molto a cuore, come lo sbarco sulle coste laziali della nave inglese “Britannia”. Quello che so è che si stabilì allora, nel 1992 – e si mantiene fino ad oggi – il paradosso che chi deregolamenta, chi privatizza in Italia è il centrosinistra, e non il centrodestra. Le privatizzazioni possono averle fatte bene o male ma sono state fatte dalla sinistra. Questo paradosso ha anche dei risvolti molto sorprendenti e molto strani, come nel caso della vendita di Telecom… Farò l’esempio di Franco Bernabè che è un manager che assomiglia a tutti gli altri Franco Bernabè che si trovano nei Paesi più civili del mondo: un funzionario pubblico che è lì per fare la funzione pubblica, per avere gloria tecnocratica forse, ma sicuramente rispetto sociale, e non per fare soldi, o prenderne sottobanco. Persone come lui in Italia vengono facilmente messe da parte quando ci sono da affrontare questioni delicate come la privatizzazione di Telecom. Franco Bernabè diceva, se ben ricordo, che se decidiamo di venderla, la vendiamo al prezzo più alto, facciamo una bella asta e vediamo chi offre di più. Quando non si fa un’asta è inevitabile che il proprietario, cioè il cittadino italiano viene a perderci. E con le privatizzazioni avviate nel ‘92 in tanti hanno perso.

Colpo Di Stato
In Italia sono in tanti a fantasticare che nel ‘92 ci fu un golpe. A que-sto proposito, ricordo che nel 1968 è stato pubblicato il mio Colpo di Stato: un manuale pratico in cui provai a dare questa definizione: “Il Colpo di Stato consiste nell’infiltrazione di un settore limitato, ma critico dell’apparato statale e nel suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei rimanenti settori”. Questa frase viene spesso utilizzata per teorizzare una sorta di ruolo eversivo da parte dei magistrati milanesi. Mi sembra una sciocchezza. Sarebbe come fare il Di Pietro con Di Pietro: se si vuole accusare il pool di Mani pulite di voler rovesciare il sistema dei partiti, bisogna provarlo. E non credo sia possibile. Non penso che la figura di Di Pietro sia assimilabile a quella di un magistrato comunista che da sempre lotta contro la Democrazia cristiana. Piuttosto mi sembra di più un riflesso dell’azione dell’allora presidente della Repubblica, non a caso definito “picconatore”. Cossiga ebbe forse un ruolo primario nello scardinare la Democrazia cristiana, ma lo fece piangendo perché si sentiva in dovere di farlo, non certo per odio o altre criptiche ragioni. C’è chi vuole unire con un unico filo rosso Cossiga, Di Pietro, gli americani e chissà chi altri ancora. Ma per accertare un Colpo di Stato occorre certificarne l’intenzionalità e mi pare che in questo caso non sia provabile. Non credo si possa dire che Di Pietro era collegato a Cossiga. È vero invece che c’erano tanti, anche in Italia, che erano disgustati dagli episodi di manifestata e spudorata corruzione.


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