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Il piatto ghiotto della finanza

La mattina del 15 maggio 1991 si svolsero i funerali del professor Pasquale Saraceno, l’ultimo sopravvissuto alla grande era delle Partecipazioni statali. Nel Consiglio Cee del 15 otto­bre 1990 sir Leon Brittan – Commissario alla Concorrenza e fratello del direttore del Financial Times – aveva contestato alla radice ogni forma di sovvenzione degli Stati alle imprese, pub­bliche o private che fossero. Era l’inizio della nuova era della concorrenza internazionale, e di conseguenza della fine dei mercati protetti, come era in buona parte l’Italia, e il trionfo sul continente europeo delle dottrine neoliberiste della scuola di Chicago, del thatcherismo e della globalizzazione.

L’anno 1992 si aprì con la firma del Trattato di Maastricht: agli Stati nazionali veniva così sottratto il controllo della moneta e della liquidità interna, oltre a ridimensionare l’obiettivo della utilità sociale, “il cui perseguimento”, notò il professor Gua­rino, “viene affidato in via automatica ed esclusiva al regolare funzionamento del mercato e della concorrenza”. Da quel  7 febbraio 1992 in poi, è necessario seguire gli avve­nimenti incrociando la crisi politica con le opportunità offerte a forze economiche non solo nazionali.  Pochi giorni dopo, scoppiava a Milano, con l’arresto del socialista Mario Chiesa, lo scandalo poi definito di “Mani pulite”: tuttavia alle elezioni politiche del 5 aprile il quadripartito – dopo l’uscita del Pri di Giorgio La Malfa – deteneva ancora una maggioranza assoluta parlamentare, alla quale non corrispondeva però né la compat­tezza politica, né la tenuta dei rappresentanti del popolo anni­chiliti dalle iniziative giudiziarie, al punto che quello eletto il 5 aprile 1992 passerà alla storia come “il Parlamento degli inqui­siti”.

La Repubblica italiana accettò il Trattato di Maastricht con un frettoloso voto di quel Parlamento, dopo il ruvido sol­lecito dell’avvocato Agnelli sul quotidiano della Confindustria del 4 agosto 1992. Eppure l’Italia era in Europa il Paese più debole, con un elevato debito pubblico e con un sistema in­dustriale e finanziario per buona parte controllato dallo Stato. “Il passaggio dal vecchio regime a quello nuovo”, commentò Guarino, “ha posto per l’Italia un problema di conversione e di ristrutturazione che gli altri non hanno dovuto affrontare e che ha comportato un costo”. In seguito allo scioglimento ufficiale dell’Urss, avvenuto il 1° gennaio 1992, la posizione internazionale dell’Italia e quindi della classe politica di go­verno si era fortemente indebolita.

Se, in passato, come aveva sottolineato il ministro del Tesoro Guido Carli, “sarebbe stato eversivo non finanziare il deficit pubblico”, e ciò spiegava la politica di svalutazione competitiva seguita da Roma per de­cenni, ora tutto era cambiato. Il ministro del Tesoro Carli a Maastricht aveva deciso di sottoporre a vincoli esterni le forze sociali; e secondo il futuro commissario europeo Mario Monti era ormai necessario “accettare vincoli stretti e non derogabili, in modo da non lasciare ai nostri politici altra strada se non quella del risanamento finanziario del Paese”. Belle parole, ma di fatto l’Italia nel 1992 era nel nuovo panorama europeo un debitore coatto.

L’episodio della crociera dello yacht reale Britannia da Civitavecchia, il 2 giugno 1992, è emblematico, anche se è stato sopravvalutato dai commentatori amanti della teoria del complotto: i banchieri d’affari della City spie­garono ai dirigenti economici italiani presenti come si fanno le privatizzazioni, sull’esempio inglese.  Davanti ai loro occhi una “torta” appetitosa, stimata almeno centomila miliardi di lire.  Le privatizzazioni italiane assumevano prima di tutto un carattere ideologico, come ebbe occasione di spiegare proprio a bordo del Britannia il futuro governatore della Banca d’Italia Mario Draghi: “Uno strumento per limitare l’interferenza po­litica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche: questo è senz’altro un obiettivo lodevole”. Il 1° luglio 1992, ad un convegno di “Business International” a Roma, Draghi chiarì che “l’effetto di credibilità” era essenziale: si trattava di dimo­strare a tutti che il sistema delle Partecipazioni statali in Italia era arrivato al capolinea, così da cancellare “i dubbi dei mercati finanziari sulle possibilità che si avvii il piano di risanamento del bilancio e di riduzione dell’inflazione”. Da una parte ci si rendeva conto che le privatizzazioni non avrebbero risol­to il problema del debito pubblico, dall’altra appariva chiaro come le pri­vatizzazioni fossero il grimaldello per scardinare definitivamente il potere politico e fare dei buoni affari.

Su quel piatto si avventarono non solo i “poteri forti” nazionali, ma anche e soprattutto gli anglosassoni, così da far chiedere retoricamente al finanziere milanese Jody Vender: “Ma perché quasi tutti gli incarichi sono stati affidati agli stranieri? Talvolta queste società non hanno nemmeno una struttura in Italia, e so che alcune di esse addirittura subappaltano studi che dovrebbero effettuare in proprio”. Sarà Carlo Azeglio Ciampi, capo del governo, con il decreto legge 389 del 2 ottobre 1993, a togliere di mezzo, nelle valutazioni delle imprese da privatizzare, i limiti frapposti dalla normativa sulla contabilità generale dello Stato: “Sembra difficile negare” recitava la relazione al decreto legge, “che le rigidità procedimentali della normativa contabile mal si adat­tano alle complesse operazioni di dismissione…”.

D’ora in poi la valutazione dei beni dello Stato sarebbe stata affidata a sog­getti privati, “società di provata esperienza e capacità operativa nazionali ed estere, nonché a singoli professionisti di chiara fama”. Il governo di Giuliano Amato, nato dopo le elezioni del 5 aprile 1992, trasformò gli enti pubblici economici in società per azioni; in seguito mise in cantiere un progetto di Giuseppe Guarino, ministro dell’Industria e delle Partecipazioni statali, che prevedeva la nascita di due super-holding finanziario­industriali che avrebbero concentrato l’Iri, l’Eni, l’Enel e le banche di interesse nazionale in un conglomerato a partecipa­zione pubblica e privata: ciò avrebbe consentito un ruolo di protagonisti nel nuovo mercato globale. Ma quel progetto  non passò: si preferì lo spezzatino, il cui primo atto fu il “Libro Verde” a cura di Mario Draghi, presen­tato dal ministro del Tesoro Piero Barucci al presidente Amato.

Il “Libro Verde” partiva dalla premessa che “non è possibile definire esattamente che cosa si intenda per strategico…”. Il ministro dell’Industria, Guarino, venne messo in un angolo, a favore della troika Amato-Barucci-Baratta, neo assunto alle Partecipazioni statali. Come lo stesso Barucci riconosce nelle sue memorie, Guarino intendeva sostenere “un futuro assetto unitario dell’intero assetto industriale italiano”, mentre il Teso­ro e i suoi alleati in Confindustria e Mediobanca si propone­vano soprattutto di cominciare quanto prima a privatizzare, in omaggio alla credibilità verso i mercati finanziari. Seguì la liquidazione del governo Amato e l’avvento di Ciam­pi. Nel frattempo il Pds aveva tenuto un convegno nazionale sulla riorganizzazione delle Ppss il 23 ottobre 1992, al residen­ce di Ripetta. Nelle conclusioni, Alfredo Reichlin sottolineava il “problema cruciale, cioè se la strategia delle privatizzazioni deve estrinsecarsi attraverso la vendita di ciascuna impresa al miglior offerente oppure deve essere parte di una politica indu­striale e di un progetto di riorganizzazione, sia del sistema delle imprese che dei mercati finanziari. Noi siamo inequivocabil­mente a favore della seconda opzione”.

Però né i post-comunisti, né i socialisti, travolti dalla bufera di “Mani pulite”, poterono nulla contro un orientamento che aveva l’appoggio della grande informazione, nel clima di terro­re generalizzato. Ad un giornalista britannico che gli chiedeva se le privatizzazioni sarebbero state possibili senza l’intervento della magistratura, il ministro Barucci dovette rispondere che non lo sarebbero state. Gran parte dei drammi industriali di oggi, a partire da Telecom, hanno la loro origine nelle decisioni prese nel 1992, nell’assenza di visione degli interessi nazionali e, in certi casi, in veri e propri misfatti economici sui quali sa­rebbe ora si cominciasse ad indagare.


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