Il 1992 fu il trionfo dell’antipolitica, oppure la legittima reazione alla degenerazione della politica in affarismo e cesarismo, che caratterizzarono il dodicennio successivo alla morte di Moro e della politica di solidarietà nazionale, assassinata nella culla insieme con lo statista pugliese? Se si pretende di giudicare il 1992 senza collocarlo nel contesto del decennio che lo precedette, si opera certamente, in buona o in mala fede, una falsificazione (in senso proprio, non popperiano) della storia. D’altro canto, il pauroso aumento del debito pubblico, in quel decennio è solo uno dei segnali che la mancanza di alternative politiche alla coalizione creatasi dopo la morte di Moro aveva di fatto trasformato una inamovibilità politica in una impunità. Il 1992, peraltro, va letto unitariamente al 1993, che rappresentò il completamento e la conclusione vittoriosa di un lucido disegno che vanificò tutte le legittime speranze degli italiani.
L’inchiesta “mani pulite”
Al di là di eventuali eccessi giustizialisti, il ‘92, con l’inchiesta “Mani pulite” fu dunque una sana reazione alla deriva politica e affaristica del decennio precedente. Quanto a possibili collusioni tra apparati dello Stato e intelligence straniere, escludo nel modo più assoluto che i magistrati che svolsero l’attività di indagine a proposito di Tangentopoli possano essere stati al corrente di eventuali interessi di servizi segreti esteri in questa legittima attività di polizia giudiziaria, che peraltro avrebbe avuto innegabili conseguenze politiche. Naturalmente non possiamo escludere del tutto che ambienti stranieri possano avere avuto interesse a facilitare l’attività della magistratura, all’insaputa degli stessi magistrati che operavano. Facilitando magari le indagini sia pur restando dietro le quinte.
La trattativa Stato-mafia
Ma il periodo che qui esaminiamo fu un anno di svolta anche in altri settori della vita del Paese. Negli ultimi mesi si sono trasformate in certezze (per ora soltanto politiche, vedremo fra qualche anno se diventeranno certezze giudiziarie), ipotesi e informazioni che erano emerse intorno al 1997 circa un patto che settori dello Stato strinsero, o comunque tentarono di stringere, con un settore “disponibile” della mafia. Nulla di nuovo sotto il sole, se ricordiamo l’accordo stipulato tra ambienti governativi statunitensi e Lucky Luciano nel 1942 in vista dello sbarco alleato in Sicilia; e la tregua più che trentennale tra settori politici di governo e i vertici della mafia “Onorata società” dall’immediato dopoguerra agli anni delle uccisioni “eccellenti” del procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, del magistrato Rocco Chinnici e soprattutto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una tregua di convenienza, propiziata dalla Guerra fredda e dalla utilità, per settori dello Stato e settori internazionali, di un bastione anticomunista in un’isola strategica, al centro del Mediterraneo, come è indubbiamente la Sicilia.
Il periodo stragista
Ma torniamo al 1992: l’uccisione di Salvo Lima il 12 marzo di quell’anno, in piena campagna elettorale, fu il segnale che la mafia non avrebbe tollerato che la magistratura estendesse alla Sicilia la sua opera di bonifica iniziata a Milano con “Mani pulite”. Il messaggio fu reiterato con brutalità decuplicata il 23 maggio con la strage di Capaci. Oggi sappiamo con certezza che settori politici e dello Stato compresero appieno la serietà dell’avvertimento e si adeguarono. Il generale, poi prefetto, Mario Mori fu incaricato di stabilire il contatto. Strani scherzi del destino: un altro prefetto Mori aveva guidato la lotta al brigantaggio e alla mafia durante il fascismo, finché non giunse a lambire il livello degli intoccabili e fu prontamente promosso e rimosso. Le notizie su questa trattativa che emersero appunto nella seconda metà degli anni Novanta, hanno avuto nel corso dell’anno conferme che non possono essere sottovalutate. Notizie che sono ormai ben più di indiscrezioni e non si basano soltanto sulle deposizioni, sempre opinabili, di Massimo Ciancimino. Il coinvolgimento dell’allora generale Mori appare ormai certo, e il prefetto non è certo persona da assumere iniziative di una tale delicatezza e gravità senza un input politico di alto livello. La vicenda si sviluppò tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio e apre inquietanti interrogativi sulle vere motivazioni dell’assassinio di Paolo Borsellino. In sede giornalistica – e non solo – sono state avanzate, nel corso degli anni, ipotesi inquietanti che farebbero risalire la decisione di eliminare il magistrato al fatto che egli si fosse opposto fermamente all’apertura di interlocuzioni, che inevitabilmente si sarebbero trasformate in patteggiamenti occulti. Il nodo storico e giudiziario da sciogliere è: come interagirono i due eventi, cioè la trattativa e l’uccisione di Borsellino? È ipotizzabile che un giorno si possa giungere ad affermare che l’una sia stata la causa dell’altra, cioè che l’uccisione del magistrato sia stata decisa in seguito ad un suo rifiuto di avallare ogni possibile contatto con un vertice della mafia, quale era certamente Provenzano? Il problema si pose, sotto forma di mera ipotesi, già nel corso del processo per la strage di via dei Georgofili, ma nel 2010 meriterebbe un più serio approfondimento.