Gli attriti tra Netanyahu e Obama, il dossier iraniano, la questione palestinese e la sfida lanciata dal centrosinistra per il governo del Paese. Ecco alcuni dei temi affrontati nel giorno delle elezioni israeliane in una conversazione di Formiche.net con Umberto Minopoli. Su Twitter così si definisce: “Migliorista, liberale, a fianco di Israele”.
Minopoli non intravede grandi cambiamenti, a prescindere da chi otterrà il controllo del Knesset, il parlamento di Tel Aviv, e sugli errori dell’amministrazione americana in Medio Oriente dice che…
Cosa influenzerà maggiormente i risultati di queste elezioni?
Il premier in carica, Benjamin Netanyahu, potrebbe scontare due tipi di difficoltà: quelle relative alla situazione economica, deterioratasi anche in una società stabile come quella israeliana; e il diffuso malessere serpeggiante tra i moderati, che potrebbero essersi astenuti dalla votazione. Credo meno, invece, nel peso della situazione internazionale e mi riferisco in particolare ai rapporti con gli Usa.
Come cambierà la politica estera israeliana se il centrosinistra dovesse andare al potere?
Non molto. Chiaramente la politica di una coalizione di colore diverso potrebbe essere apparentemente più aperta nei confronti di alcuni temi, come quello degli insediamenti. Ma ci sono questioni che non dipendono solo dalla volontà del governo israeliano. Penso al rapporto con l’Autorità nazionale palestinese, che fatica a rompere con i terroristi di Hamas, o nel rapporto con l’Iran.
Netanyahu però è stato criticato dalla sinistra israeliana – e non solo – per il suo discorso al Congresso. Come valuta la posizione del leader di Likud in merito al nucleare iraniano?
Bisogna a mio parere separare nettamente i toni da campagna elettorale e le questioni oggettive. La sinistra ha criticato Netanyahu, è vero. Ma la colpa, in questo caso, è tutta degli Stati Uniti. Negli ultimi anni gli Usa hanno voluto assumere su molti temi, compreso quello iraniano, un atteggiamento di equidistanza.
Non è un atteggiamento corretto?
Per certi versi, ma nel caso specifico bisogna osservare che il negoziato in atto non pone a Teheran nessuna restrizione che le impedisca davvero di dotarsi delle bomba atomica. L’unico modo per essere certi sul piano tecnico è bloccare ogni possibilità per l’Iran di arricchire l’uranio. Ciò non impedisce che la Repubblica islamica sviluppi il nucleare ad uso civile, ma consentirebbe a Tel Aviv di essere più serena. Non è discussione la riabilitazione internazionale dell’Iran, ma come debba avvenire. La storia del Medio Oriente ha dimostrato che siglare accordi non è garanzia di pace e non darei per scontato, come fa Washington, che l’Iran si sia ravveduto. Servono garanzie tecniche. Invece questo dettaglio è scomparso da ogni discussione. Per questo Netanyahu ha fatto bene a porre la situazione sotto la lente internazionale. Credo che la sinistra, se fosse stata al governo, avrebbe fatto lo stesso.
Il premier si è detto contrario anche alla nascita di uno Stato palestinese, un’altra scelta che lo allontana dalla sinistra e da molti altri Paesi.
Anche in questo caso credo si tratti di toni elettorali e nulla più. Dopo l’ultimo governo laburista, da Sharon in poi per intenderci, il progetto dei due Stati è stato fatto proprio anche e soprattutto dalla destra israeliana. L’errore che ha fatto Netanyahu è semmai che alzando i toni ha dato fiato anche a quelle minoranze che propongono davvero di lavorare a una convivenza che per il momento risulta difficile, se non impossibile. Anche in questo caso gli Stati Uniti non hanno aiutato molto.
Cosa intende?
Negli ultimi anni la politica americana in Medio Oriente si è caratterizzata per un’assenza totale di strategia e visione nel medio periodo, ma ha inteso colpire di volta in volta il nemico del momento, che magari poi diventava amico e subito dopo ancora nemico. Questo approccio è stato usato anche sulla questione palestinese, ma ha finito per indebolire il processo di pace. Israele si è sentita minacciata. Ad esempio, allo stato attuale, checché se ne dica, è impossibile recidere i legami tra Hamas ad alcune parti dell’Anp. Se non si risolvono prima questi problemi, è inutile negoziare. Tel Aviv non teme una rottura dei rapporti con gli Usa, ma è preoccupata di questa sua condotta oscillante.