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La Libia è un dossier italiano, pure se ora l’America sembra un po’ interessarsi

Gli Stati Uniti sembrano sempre più preoccupati della situazione in Libia, almeno stando a quello che è uscito in una relazione del dipartimento di Stato, in cui si evidenzia che alcuni «senior» leader dello Stato islamico sarebbero arrivati nel paese per aumentare l’attività di reclutamento. Secondo i dati del report, pubblicati da Reuters, in questo momento in Libia ci sarebbero dai 1000 ai 3000 combattenti dell’IS: circa 800 hanno base a Derna, di questi almeno 300 sono veterani arrivati dalla Siria e dall’Iraq ─ molti, probabilmente, riconducibili alla brigata al Battar, storica componente IS del conflitto siriano, formata quasi esclusivamente da libici.

La valutazione generale del dipartimento di Stato non è altro che una conferma: la disintegrazione dell’autorità centrale, ha creato i presupposti che hanno permesso allo Stato islamico di stabilire in Libia un punto d’appoggio.

La preoccupazione americana arriva dopo mesi di disimpegno: Washington ha da sempre considerato il dossier-Libia un affare italiano, al più europeo, e la pubblicazione del report non sembra niente di più che un espediente per mettere pressione sui colloqui di pace in corso in questi giorni a Rabat, in Marocco, tra gli pseudo governi di Tripoli e Tobruk ─ quasi un atto dovuto, il fare pressione, giocato utilizzando il pretesto del consolidamento in corso della presenza dello Stato islamico, come uno spauracchio, realistico sia chiaro, per entrambe le parti.

L’intesa sembra lontana, come alcuni segnali avvertono. Da circa una settimana le forze della Brigata 166, unità dell’Alba della Libia ─ la fazione che guida il governo (islamista-più-o-meno-non-jihadista) di Tripoli ─, stanno combattendo lo Stato islamico a Sirte, riportando pure discreti risultati. Circostanza che segna punti a favore di Tripoli ─ che gode normalmente di una legittimazione internazionale molto ridotta (solo il Qatar è un interlocutore) ─ che potrebbero essere spesi dallo pseudo-premier Omar al Hassi al tavolo dei negoziati. Per tutta risposta, il generale Haftar, nuovo capo delle forze armate libiche (o ciò che ne resta, ma comunque “l’uomo” militare del governo di Tobruk), ha lanciato un’offensiva contro Tripoli che si è spinta fino all’aeroporto cittadino, abbinata a diversi bombardamenti su quella che è ancora a tutti gli effetti la capitale.

Questo è il clima in cui i colloqui di pace dovrebbero avvenire ─ e si dovrebbe compiere quel primo passo che viene considerato da molti come la condizione necessaria per avviare un futuro in Libia, cioè la creazione di un governo di unità nazionale, con l’espressione di un primo ministro di Tobruk e di due vice di Tripoli (da lì, poi, potrebbero iniziare gli aiuti internazionali, compresi quelli militari che coinvolgono la lotta, unitaria, contro l’insinuarsi del Califfato).

Se gli accordi dovessero fallire ─ e le tempistiche sono strette, come ricordava qualche giorno fa il capo della diplomazia europea Federica Mogherini ─ c’è già pronto un “piano B” italiano, che avrà come fulcro però non la soluzione delle controversie interne tra i due blocchi libici, ma soltanto la lotta al terrorismo dello Stato islamico. In un articolo di Daniele Raineri uscito sabato sul Foglio, una fonte anonima del governo di Roma diceva che «all’America della Libia in questo momento non potrebbe interessare di meno», ed è per questo (e visti i presupposti dei colloqui) che Matteo Renzi ha pensato una strategia alternativa, cercando la sponda di quanti più alleati possibile, ma senza contare troppo sul peso diplomatico degli Stati Uniti ─ Renzi sarà alla Casa Bianca il 17 aprile, e sembra difficile che tornerà indietro con una linea diversa.

Il piano-B riguarda trattare la situazione libica come è stato fatto finora con il Pakistan, lo Yemen (ok: è un modello discutibile visti i risultati!), la Somalia: governi amici che si sono fatti spalla nelle ormai classiche operazioni antiterrorismo, costituite da raid aerei puntuali e blitz mordi e fuggi delle forze speciali ─ dunque niente contingenti boots on the ground, come invece alcuni membri del governo italiano avevano supposto tempo fa. Attività (sia i blitz dei commandos che i raid aerei) che nel caso della Libia potrebbero utilizzare le basi italiane, fosse solo per la logistica, ma che non sarebbero unilaterali, ma sotto un mandato internazionale.

Per Roma o la soluzione si trova per via negoziale, mettendo d’accordo almeno le fazioni più importanti che compongono i blocchi di Tripoli e Tobruk, oppure, alternativamente, si deve intervenire in Libia solo per contenere la minaccia del terrorismo islamico che arriva dal Califfato. Non c’è sbilanciamento a favore di uno dei due psudo-governi, sebbene è plausibile pensare che la scelta ricadrebbe su quello di Tobruk, magari senza il peso di Haftar.

Gli equilibri hanno sempre un punto di bilanciamento: se con Tobruk ci può essere feeling politico, non si può dimenticare il valore economico di quello che c’è sotto le coste di Tripoli.

La posizione equilibrata dell’Italia, è infatti espressione anche di interessi economici: motivo in più per cui Renzi si trova quasi costretto a risolvere la pratica “da solo”. La linea misurata del governo italiano, è quella condivisa dall’Eni. Il gigante energetico italiano ha da poco scoperto un giacimento off-shore al largo della costa del campo in produzione di Bahr Essalam, che dai primi test estrattivi ha mostrato un potenziale molto elevato: a regime potrà produrre 1,5 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, a fronte di una richiesta generale, in italia, di sei. Il punto è che si trova ad Ovest, a pochi chilometri da Tripoli. E ad Ovest si trova pure il terminal di Mellitah, punto di appoggio di Eni per il trasporto del greggio ─ e del gas, che sfrutterebbe Greenstream, gasdotto di 520 km che collega la stazione di compressione libica di Wafa, Mellitah, e quella di ricevimento di Gela.

@danemblog 

 

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