Skip to main content

L’Italia e la questione libica

Libia haftar

L’appello della Libia all’Italia è una notizia che rischia purtroppo di non fare notizia.

La situazione critica è stata presentata con chiarezza alla stampa dal presidente del Parlamento legittimo, ossia riconosciuto a livello internazionale, di Tobruk, Agila Saleh. Si tratta di un appello della Libia in larga parte rivolto all’Italia, il Paese che è separato da solo 300 km di mare dalle coste del grande Stato africano.

Il terrorismo avanza in modo violento ed è contrastato per ora unicamente dall’esercito legittimo, guidato dal generale Haftar. Saleh si è premurato di chiarire che l’azione militare governativa non deve essere confusa con le guarnigioni dell’Isis e non deve far pensare a un effetto della guerra civile tra clan. E’ la difesa di una nazione da un colpo di Stato che si sta consumando progressivamente.

In realtà, tutta la Libia è dilaniata dall’espansione del fondamentalismo di cui non sembra ancora essere stata compresa la gravità effettiva. L’intervento dell’Egitto è stato, infatti, salutato con favore dai libici, anche se ha rallentato e non fermato l’avanzata del Califfato.

Per l’Europa che conta tutto ciò non è una priorità. Per la comunità internazionale è una questione marginale. Per l’Italia, invece, come giustamente osserva il presidente libico, lo sventolare delle bandiere nere nelle vicinanze costituisce un drammatico presagio e una concreta minaccia.

Qui non si parla, in fin dei conti, soltanto della cinghia di trasmissione che muove l’immigrazione clandestina verso di noi. Non ci si riferisce esclusivamente al livello di allerta che le cellule terroristiche possono svolgere, una volta entrate nel nostro territorio. Ma si paventa la possibilità che, una volta conquistate le coste libiche, lo Stato islamico possa vedere come obiettivo seguente direttamente le nostre rive.

Saleh, rivendicando gli ottimi rapporti storici tra i due Paesi confinanti, esorta il governo italiano a prendere una posizione militarmente più marcata. In primo luogo togliendo l’embargo alle armi legali. E in secondo luogo pattugliando in modo più incisivo, quindi non solo per ragioni umanitarie, il Mediterraneo.

A essere onesti sono delle richieste comprensibili e per nulla eccessive. Insomma il minimo indispensabile. Rientrano oltretutto in quello che può essere fatto da un Paese come il nostro orientato in senso costituzionale e per mentalità comune alla pace.

Forse quest’appello dovrebbe far riflettere, prima ancora dell’Esecutivo, tutti noi come cittadini. E’ chiaro che siamo davanti ad uno scenario internazionale nuovo, le cui insidie per la sicurezza e l’incolumità collettiva, sono ancora difficili da valutare.

Purtroppo in Europa la questione del terrorismo territoriale è per ragioni geo politiche un problema soprattutto italiano.

Rimanere con le mani in mano e seguire la procedura farraginosa delle autorizzazioni internazionali, sempre auspicabili in ogni caso, potrebbe esserci fatale. Se non altro perché quando e se la questione Isis dovesse diventare una concreta dichiarazione di guerra all’Italia, non necessariamente lo sarebbe all’Europa, e probabilmente sarebbe ormai troppo tardi.

Il fatto che non vi siano stati ancora attentati non è perché nel nostro territorio non vi siano cellule terroristiche, ma perché, dal loro punto di vista, adesso sarebbe prematuro e strategicamente sbagliato. Se, invece, il conflitto dovesse entrare in una fase calda, potremmo ritrovarci sguarniti e soli all’esterno, oltre che vulnerabili all’interno.

Una buona politica prevede e non si accontenta di gestire un problema quando è diventato un dramma. In un momento particolare per la nostra capitale, durante il prossimo anno giubilare, pochi giorni fa annunciato da Papa Francesco, noi saremo un bersaglio facile e dotato di una portata simbolica eccezionale.

La diplomazia vaticana, d’altronde, non sembra per nulla prendere sottogamba la situazione, anche perché ha un quadro complessivo della violenza anti cristiana che si perpetra nel mondo.

Oggi stesso il Santo Padre, scrivendo una missiva ai Vescovi della Nigeria, ha detto “molti di voi sono stati uccisi, feriti e mutilati, sequestrati e privati di ogni cosa: dei propri cari, della propria terra, dei mezzi di sussistenza, della loro dignità, dei loro diritti. Tanti non hanno più potuto fare ritorno alle loro case. Credenti, sia cristiani sia musulmani, sono stati accomunati da una tragica fine, per mano di persone che si proclamano religiose, ma che abusano della religione per farne un’ideologia da piegare ai propri interessi di sopraffazione e di morte”.

Dobbiamo stare attenti. Non si tratta del destino tragico di un Paese lontano, ma di noi, delle nostre vite e del nostro futuro. Domani potremmo trovarci sottoposti alle barbarie della Nigeria, senza che ne abbiamo preso atto tempestivamente.

Per questo motivo è quanto mai importante e urgente che dall’Italia venga una risposta a questa domanda di aiuto e di collaborazione della Libia. Dobbiamo comprendere che talvolta la storia mette di fronte a delle scelte ardue, che possono costare vite umane, ma non ha scelto l’Italia di essere minacciata e non possiamo pensare che un’Europa, politicamente inesistente al di fuori degli egoismi di alcune nazioni, o gli Stati Uniti, ormai rinchiusi in se stessi, possano prendere le nostre difese e sostituirsi alle nostre responsabilità.

E’ bene capire, insomma, che la guerra è guerra, ed è ormai alle porte. E la logica bella e comoda che ci contraddistingue come popolo buono e disponibile potrebbe non bastare a fermare i tagliagole.

Noi in Libia dobbiamo farci sentire. Il Mediterraneo va difeso. E tutti i valori per cui viviamo, incluso il nostro essere cuore della civiltà cristiana, e per cui hanno lottato tante generazioni che ci hanno preceduto, facendoci essere una straordinaria e libera democrazia, non possono essere calpestate da chi è semplicemente più violento e più disumano di noi.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter