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Made in Italy a rischio reputation

Debole sul piano della corporate governance e, paradossalmente, anche della reputation. Se la moda e il lusso made in Italy vanno forte nel business, hanno ampi margini di miglioramento nella Csr. L’analisi è dell’agenzia di rating di sostenibilità Standard Ethics.

«Il settore della moda e del lusso made in Italy ha sostanziali debolezze sul piano dei modelli di governo societario e di gestione dei rischi reputazionali, i quali sono limitatamente avvertiti, per lo più, sul piano della qualità del prodotto». Se faccio un buon prodotto, che piace, allora la mia reputazione è salva, sembrano pensare le grandi griffe italiane. L’immagine dell’azienda la fanno gli abiti e le calzature. Se vendono e il prodotto piace, il resto è secondario.

Ma, così facendo, i brand italiani tralasciano altri aspetti che incidono sulla reputazione e che sono sempre di più sentiti dagli stakeholder: investitori, azionisti, fornitori e dallo stesso compratore finale. Un esempio era stato quello di Moncler, con lo scandalo della produzione dei piumini sollevato da Report.

Le società analizzate, che appartengono allo Standard Ethics Italian Index, sono Ferragamo, Moncler, Tod’s e Luxottica.

Nei primi tre casi, analizza Standard Ethics, il sistema di governo è fortemente incentrato intorno a figure chiave sul piano storico e/o creativo. L’esperienza di Luxottica, invece, ha valorizzato maggiormente figure manageriali indipendenti, privilegiando un’ottica più strategica e più vicina alle esigenze di investitori di lungo periodo.

Nei casi di Ferragamo, Moncler, Tod’s, l’aspetto della sostenibilità (con annessi elementi di governo, gestione delle risorse umane e problematiche ambientali) è trattato in modo marginale, se non, addirittura, ignorato. «È nostra opinione che il tema non sia percepito come essenziale».

Insomma, problemi di governance e i rischi reputazionali di natura diversa dagli aspetti qualitativi della produzione vengono considerati elementi secondari. «L’alta marginalità fornisce una buona sicurezza verso eventuali impatti negativi e, conseguentemente, tende a produrre una percezione di invulnerabilità e disincentivare migliorie sui due fronti sopra citati – commenta Standard Ethics – . Inoltre, non è da escludere vi possa essere il timore che l’introduzione di elementi organizzativi nuovi (ritenuti poco utili) venga percepito come un rischio verso modelli gestionali e produttivi consolidati. Se si è abituati a gestire l’azienda in un certo modo, focalizzandosi soltanto su brand e prodotto, cambiare cultura e ristrutturare l’azienda può spaventare».

In realtà, avere una corporate governance e una policy di sostenibilità adeguate agli standard internazionale sarebbe un asset. E’ un’opinione condivisa e lo ho ha ricordato Etica Sgr, quando l’anno scorso è intervenuta in qualità di socio attivo all’assemblea annuale dei soci di Luxottiva, invitando il leader dell’occhialeria a redigere il bilancio di sostenibilità. Al rifiuto da parte dei vertici presenti in assemblea, Etica Sgr ha fatto notare l’azienda stava trascurando un aspetto preso in considerazione dagli investitori internazionali. Luxottica (e in generale il settore) manca un’opportunità. Pochissime società italiane della moda hanno il bilancio sociale. Ferragamo l’anno scorso ha dichiarato di volerlo adottare.

In Italia non mancano esempi positivi. Secondo Standard Ethics, il caso più virtuoso nel settore della moda in Italia, oggi, è sicuramente Gucci, che – e non a caso – non è più degli azionisti storici, ma è stato acquisito dal gruppo francese Kering (ex Ppr). «Gli elementi strategici di governance sono stati, nella passata gestione, del tutto ignorati e nel momenti di bassa marginalità hanno prodotto tutte le disfunzioni che Gucci ha subìto nella drammatica fase finale dell’ultimo passaggio generazionale. Cosa che ha portato l’azienda verso gli attuali azionisti. Gucci evidenzia particolare attenzione agli elementi della sostenibilità all’interno del circuito produttivo (soprattutto). Margini di miglioramento sono riscontrabili sul piano del governo societario, ma sono elementi – potenzialmente – assai meno critici degli altri casi».

Poi c’è il caso di Cucinelli, inserito nell’indice Italian Small, che, per Standard Ethics, è tra coloro che hanno più sensibilità al modello di sostenibilità promosso in sede europea.

 

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