Se l’indiscrezione di Associated Press secondo cui esista già una bozza di accordo politico sul nucleare iraniano si rivelerà vera, sarà presto chiaro. Scadranno infatti il 31 marzo i negoziati tra Teheran e i cosiddetti “5+1”, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Germania.
LE INDISCREZIONI DI AP
Secondo quanto diffuso dall’agenzia (e prontamente smentito dai diretti interessati), la potenziale intesa si baserebbe su una riduzione del 40% delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio ora in possesso dell’Iran, per 10 anni, in cambio di un immediato alleggerimento delle sanzioni che pesano sulla economia iraniana. Nulla che non fosse già stato riportato sui media in molte altre occasioni.
IL FATTORE NETANYAHU
Quel che è cambiato è senza dubbio il contesto in cui si muove la trattativa. Se fino a pochi giorni fa Barack Obama avvertiva il vento in poppa, ora sa che il risultato delle elezioni israeliane non può essere ignorato. Ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, rieletto martedì alla guida del Paese, ha detto che le grandi potenze devono concludere un’intesa nucleare con l’Iran migliore di quello in corso di negoziato. “Credo che possiamo ottenere un accordo migliore. Vorrei un accordo che riduca le capacità nucleari dell’Iran“, ha detto il leader israeliano alla tv americana Nbc. “Se avessi un voto in questi negoziati, direi zero centrifughe“, ha spiegato, rispondendo ad una domanda sul fatto che alla Repubblica islamica potrebbero rimanere circa 6mila centrifughe. Un numero molto più alto, scrive AP, rispetto alle 1500 di cui si discuteva solo l’anno scorso.
CHE COSA VUOLE ISRAELE
“La cosa più importante è che la revoca delle restrizioni al programma nucleare dell’Iran dipenda da un cambiamento di atteggiamento da parte di Teheran. Che cessi di sostenere il terrorismo, che cessi le aggressioni contro ogni singolo Paese della regione e che cessi di minacciare la cancellazione di Israele“, ha aggiunto il premier. Negli ultimi mesi le relazioni tra Usa e Israele sono state molto tese, soprattutto per le divergenze sul dossier iraniano e per il discorso di Netanyahu davanti al Congresso Usa, arrivato senza che la Casa Bianca ne fosse stata messa a conoscenza e avesse dato il suo assenso. A Washington la rielezione del leader del Likud è stata dunque accolta con freddezza, ma è chiaro che bisognerà dialogarci.
GLI EFFETTI REGIONALI
Per il semiologo e filosofo del linguaggio Ugo Volli, il voto israeliano certifica la mancata condivisione del Paese con il percorso scelto da Obama, che necessiterebbe di maggiore equilibrio. “Bisogna porre con chiarezza dei limiti tecnici che impediscano all’Iran di dotarsi per sempre dell’arma atomica“, ha sottolineato il docente a Formiche.net. “Secondo i termini discussi finora, Teheran non avrebbe problemi ad avere un’arma nucleare nel medio periodo. E tutto ciò è inaccettabile per Israele. In primo luogo perché la Repubblica Islamica ha più volte ripetuto che uno dei suoi obiettivi è cancellare Israele dalla cartina geografica. E poi perché l’Iran è al momento un Paese che porta avanti una politica imperialista che minaccia l’intera regione, come dimostrano le sue ingerenze in Siria, Libano, Irak“.
A credere in un possibile cambio d’approccio statunitense al dossier, derivante dalle elezioni israeliane, è anche Giulio Sapelli, autore del pamphlet “Dove va il mondo” (edizione Guerini). Sempre su queste colonne, lo storico ed economista ha spiegato che “gli israeliani hanno rivotato Netanyahu perché sono dominati dalla paura“. Questo dovrebbe spingere gli americani “a legare al negoziato con l’Iran il riconoscimento dello Stato d’Israele. Più facile a dirsi, che a farsi, ma avrebbe senza dubbio un grandissimo effetto stabilizzatore“.
LE PRESSIONI DEL CONGRESSO
Cosa deciderà di fare Obama ora è tutto da vedere, ma un cambio di rotta sembra esserci già. Ieri il vicesegretario del Dipartimento di Stato americano, Antony Blinken, nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti, ha detto che qualsiasi accordo nucleare con l’Iran garantirà “in perpetuo” che la Repubblica Islamica non possa fabbricare un ordigno nucleare. E ha infine garantito che le dimensioni militari del programma iraniano verrebbero integrate nell’ambito di un accordo finale, considerando anche la mancata cooperazione di Teheran con l’Aiea per quel che riguarda quest’ambito.
Musica per le orecchie di Netanyahu, ma anche del Congresso Usa, che segue vigile, ma allenta la presa su Obama. La commissione Esteri del Senato (dal 3 gennaio a maggioranza repubblicana come già la Camera) ha deciso di rinviare al 14 aprile il voto sul provvedimento bipartisan che obbligherà il capo di Stato a sottoporre al vaglio delle Camere l’eventuale intesa, se fosse raggiunta entro la scadenza prefissata. Facendo slittare il voto dal 24 marzo al 14 aprile la commissione Esteri ha lanciato un segnale e ha anche evitato di essere accusata – almeno formalmente – dalla Casa Bianca di voler boicottare le trattative in corso. I voti sulla carta ci sono tutti, e se il 14 aprile il provvedimento passerà, il Congresso avrà 60 giorni di tempo per approvare o respingere l’intesa.