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Perché il salario minimo legale è una sconfitta per i sindacati

Si parla nel contesto del Jobs act  Poletti 2.0 di introdurre un salario minimo legale. I sostenitori dell’iniziativa si appellano al fatto che il nostro Paese sarebbe uno dei pochi, in Europa, ad esserne privo. Sarebbe però il caso di valutare meglio la funzione degli istituti piuttosto che la loro definizione. Il salario minimo legale, infatti, è tendenzialmente uno strumento utilizzato per garantire una retribuzione minima nei Paesi in cui la copertura della contrattazione collettiva è limitata. Al contrario, tra i Paesi  Ocse che hanno una copertura contrattuale superiore all’85% dei lavoratori, si trovano quelli che in Europa non hanno un salario minimo legale, quali Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca e Italia.

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Come ha scritto Silvia Spattini su Adapt, dagli anni ’90 ad oggi, la copertura della contrattazione collettiva ha subito un trend decrescente, per cui la maggior parte dei Paesi che ha assistito a tale decrescita ha reagito attraverso l’introduzione o l’incremento del salario minimo legale, quale strumento per combattere il fenomeno degli “working poor”. Da ultimo, la stessa Germania ha recentemente seguito la stessa strada. Di fronte a un importante calo della copertura contrattuale (nell’ordine di 10 punti percentuali) ha deciso di introdurre un salario minimo legale per garantire a tutti i lavoratori una retribuzione minima adeguata. Tale scelta, tuttavia, appare – secondo Spattini – come una sconfitta del sindacato rispetto alla sua capacità di garantire tale minimo.

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Nel dibattito sulle c.d. unioni civili, la “fortezza” da espugnare, da parte dei movimenti gay, è divenuta quella del riconoscimento delle prestazioni sociali. Ciò a partire dalla problematica della reversibilità, che è una componente importante del welfare: sono almeno 4,5 milioni le pensioni ai superstiti vigenti per un onere complessivo superiore a 30 miliardi  di euro; ogni anno le nuove pensioni sono più di 200mila; il 93% dei trattamenti è erogato a donne. E’ difficile calcolare – in mancanza di regole ancora da definire – quale potrebbe essere l’onere aggiuntivo. Fino ad ora, quanti si sono cimentati con questo problema hanno ragionato prendendo a riferimento le coppie omosessuali. Ma non avrebbe un senso compiuto limitare la possibilità di contrarre unioni civili solo a queste coppie (poi  basterebbe un‘autocertificazione o che altro  per far valere i requisiti ).  Diventerebbe  inevitabile la tendenza ad incentivare la formazione di questi nuclei familiari al solo scopo di fruire dei vantaggi pensionistici riconosciuti, senza dover esibire (o limitandosi a simulare) la propria omosessualità. Ci sarebbero aree nel Paese in cui l’attitudine alla convivenza esploderebbe, traducendosi in un nuovo accorgimento per accedere ad una prestazione monetaria pubblica.

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