“La politica industriale italiana oggi viene decisa dal governo di Pechino”. È con parole pungenti che l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha commentato il passaggio del controllo di Pirelli al gigante statale Chem China.
La nuova Pirelli
Un rinnovato assetto proprietario che vede l’impresa asiatica acquisire il 65 per cento dell’aziende produttrice di pneumatici e il restante 35 nelle mani dei soci di minoranza: Marco Tronchetti Provera con UniCredit e Intesa San Paolo, e i russi di Rosneft.
“Politica industriale non è dirigismo”
La valutazione dell’ex leader dell’Ulivo, lungi dall’evocare lo spettro di una “colonizzazione straniera dei gioielli nazionali”, è pervasa da una miscela di fiducia e ammonimenti.
Prodi ha scelto la cornice di un convegno promosso dall’Accademia dei Lincei sul valore dell’esperienza dell’Iri per rilanciare l’esigenza di una politica industriale italiana.
Negli ultimi anni, ricorda l’ex premier, lo hanno fatto tutti i paesi avanzati a cominciare dagli Stati Uniti guidati da Barack Obama: “Il quale ha salvato il comparto automobilistico americano”. Per tale ragione egli esorta il governo della seconda nazione manifatturiera in Europa ad avviare una riflessione su un tema “che non può essere liquidato come dirigismo”.
“Il ruolo di Cdp non basta”
L’ex numero uno dell’Unione non vuole riproporre un nuovo Istituto di ricostruzione industriale, ma pensa a rilanciare in forme moderne l’Imi: l’organismo pubblico a gestione autonoma creato nel 1931 per favorire la ricapitalizzazione dell’economia italiana tramite finanziamenti a medio-lungo termine e l’assunzione di partecipazioni azionarie.
A suo giudizio un ruolo così delicato potrebbe essere esercitato anche da Cassa depositi e prestiti, “che tuttavia presenta una struttura ridotta e non ha le competenze dell’Istituto mobiliare italiano”.
Un’affinità significativa
La riflessione di Prodi trova una indiretta consonanza nella Lettera del Club “The European House-Ambrosetti”, intitolata “Il ruolo di una efficace politica industriale per la competitività del nostro Sistema Paese” e consegnata al ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi.
Un rapporto che in 4 pagine rilancia un tema scomparso dall’agenda pubblica degli ultimi anni. E tocca nel profondo il dilemma liberismo-statalismo che sembra caratterizzare molte scelte del governo di Matteo Renzi.
Una svolta culturale
Le priorità prospettate dal pensatoio sensibile alle richieste del panorama imprenditoriale attivo nel nostro paese appaiono lontane da un orizzonte radicalmente liberista di taglio della spesa pubblica, riduzione rigorosa del perimetro dell’intervento statale, liberazione delle energie di un mercato in grado di auto-regolarsi.
Adesso viene riconosciuto alle istituzioni il compito di promuovere, agevolare e convogliare gli investimenti verso precisi comparti produttivi. L’accento è posto su una visione strutturata di interventi pubblici finalizzati a governare e orientare la realtà industriale.
Il ritardo del nostro paese
Mentre l’Italia non ha ancora definito una strategia organica in grado di rispondere alle sfide competitive, scrivono gli esperti del Club Ambrosetti, la politica industriale sta tornando al centro dell’agenda dei governi come strumento per reagire alla crisi economica e rilanciare il tessuto produttivo.
Lo confermano in modo esemplare le scelte adottate da forti democrazie capitaliste e liberali.
Quattro vicende emblematiche
A partire dagli Usa, modello di pragmatismo nelle politiche economiche. La cui amministrazione ha incentivato sinergie tra pubblico e privato per riportare in patria gran parte dell’attività produttiva trasferita all’estero. Un ritorno favorito grazie alle robuste agevolazioni previste nel progetto “Manufacturing” o “Industrial Renaissance”.
Lungi dallo smantellare il proprio tessuto industriale, Berlino ne ha rilanciato il tasso di competitività approntando interventi pubblici nel campo della ricerca applicata e nell’offerta di credito per le attività produttive.
Ricco di ambizioni è il programma statale concepito in Francia per valorizzare le tecnologie di eccellenza dei “campioni produttivi nazionali” nel campo dell’energia, della salute, dell’agroalimentare, dei trasporti. L’ambizione è raggiungere nuovi traguardi di sviluppo nelle realtà economiche in fase di transizione ecologica ed energetica, nonché in quelle informatiche e digitali.
Apparentemente clamorosa la strategia promossa dal Regno Unito, patria del mercato e della libera concorrenza. Una ricetta di sgravi fiscali e interventi pubblici infrastrutturali è stata messa in campo per aumentare la competitività globale delle filiere industriali più avanzate. Non esclusivamente nel mondo che ruota attorno all’economia finanziaria, ma anche nel terreno energetico, medico-scientifico, educativo, edilizio, agricolo, aerospaziale.