Parlare dell’America degli anni 90 dominati dalla doppia presidenza di William (Bill) J. Clinton (1992-2000) e confrontarla con la possibile – ma non certa – presidenza che sua moglie Hillary potrebbe conquistare nel 2016, significa mettere a confronto una stagione politico-istituzionale di cui conosciamo le caratteristiche con un’altra di cui non possiamo saper nulla.
Dalla prospettiva storica che in un quarto di secolo separa il 1992 dal 2016, possiamo affermare che tra le due stagioni che sancirebbero l’affermazione dei Clinton come nuova dinastia, c’è più una soluzione di continuità che non un’ovvia successione. L’elezione del democratico Bill nel 1992 seguiva il dodicennio delle presidenze repubblicane di Ronald Reagan (1980-1988) e George Bush (1988-1992) secondo quella del pendolo che sembra governare miracolosamente l’alternanza al potere presidenziale americano, come è stato teorizzato da Arthur Schlesinger Jr. per cui ogni trent’anni negli Usa si afferma un ciclo riformatore (Teddy Roosvelt nel 1900, Franklin Roosevelt nel 1932, John F. Kennedy nel 1960 e – dunque – Clinton nel 1992).
L’eventuale presidenza di Hillary nel 2016 si svilupperebbe invece dopo una stagione dominata dalla rottura dell’11 settembre 2001 che ha rappresentato un evento traumatico rispetto a qualsiasi processo politico-istituzionale in quanto ha costretto gli Stati Uniti a ridefinire tutti i suoi parametri di superpotenza. Bill Clinton vinse le elezioni del 1992 come un outsider di uno Stato periferico e meridionale, l’Arkansas, di cui era stato governatore grazie a una immagine energica (46 anni) ed estranea all’establishment, ottenendo il 43% del voto popolare contro il 38% dei repubblicani e uno stupefacente 19% al terzo candidato indipendente Ross Perot, miliardario texano, simbolo dell’antipolitica e interprete demagogico della protesta sociale ed economica contro i due partiti tradizionali.
Il programma del nuovo presidente puntò essenzialmente su una politica interna innovativa: tasse più alte per i ricchi, aumento degli investimenti per l’istruzione, trasporti e comunicazioni per migliorare la produttività e ridurre il deficit pubblico. Così, allo scadere del primo mandato nel 1996, i risultati corrisposero in buona parte agli obiettivi programmati: la crescita economica era stata continua, i nuovi posti di lavoro erano aumentati di oltre due milioni, il tasso di disoccupazione era sceso al 5,4% e l’inflazione sotto il 3%: e il deficit pubblico toccava quota 2% con una bassa quotazione del dollaro favorevole all’esportazione.
Il successo di quella politica stava nel carattere centrista con particolare attenzione per settori dello Stato sociale come il sistema sanitario, l’istruzione e l’ambiente tradizionalmente cari ai democratici, insieme con provvedimenti per la sicurezza individuale benvisti dai ceti conservatori repubblicani. Meno precisi si presentavano gli orientamenti internazionali dopo la fine dell’antagonismo con il mondo comunista che aveva lasciato un vuoto nelle priorità strategiche dell’America.
Pur tra le oscillazioni dovute a una situazione del tutto nuova, la politica estera Usa continuava a sostenere i processi di democratizzazione e a puntare sull’estensione del libero commercio internazionale. Nei confronti della nuova Russia, gli Usa sostenevano le riforme del presidente Eltsin con il quale fu concordata la riduzione degli arsenali militari, mentre veniva tolto l’embargo commerciale contro il Vietnam con cui furono ristabilite le relazioni diplomatiche. Anche quando furono intraprese operazioni sotto le bandiere degli organismi internazionali quali l’Onu e la Nato, gli Usa ne rivendicavano la guida sulla base delle primarie responsabilità.
Alle presidenziali del 1996, grazie all’accantonamento dei programmi più innovativi di assistenza pubblica sponsorizzati da sua moglie Hillary, Clinton ebbe successo conquistando il secondo mandato presidenziale che condusse secondo una linea moderata che si lasciava alle spalle la tradizionale difesa dello Stato sociale cara a una parte della base del suo partito. Nell’istruzione e nella sanità assecondava le classi medie senza sacrificare mutue e pensioni anche di chi non disponeva di un posto di lavoro, per l’immigrazione prometteva rigore ma consentiva l’istruzione pubblica per i figli degli immigrati illegali. Non si può prevedere di che tipo sarebbe la eventuale presidenza di Hillary Clinton.
Negli anni che ci separano da Clinton marito, la storia degli Stati Uniti ha subìto rotture che hanno mutato radicalmente tutti i corsi e ricorsi che caratterizzano la politica americana. L’attacco terroristico dell’11 settembre ha per la prima volta messo in pericolo il territorio americano ed ha riproposto sotto forme assolutamente inedite un nuovo nemico degli Stati Uniti, il terrorismo islamista a scala globale contro cui a nulla valgono i dispositivi che dal dopoguerra sono serviti per fronteggiare un avversario simmetrico come l’Unione Sovietica e apprestare un deterrente efficace come era l’armamento atomico durante la Guerra fredda.
L’elezione di un presidente nero, oltre alla singolarità del caso in una nazione che fino a ieri era travagliata da situazioni di forte razzismo, ha significato che l’equilibrio demografico e sociale dell’America è radicalmente mutato per cui i tradizionali blocchi politici dei due partiti sono scomposti e ricomposti secondo nuove linee. La crisi economica ha sconvolto la classe media che non è più lo scheletro della nazione. E, soprattutto, Hillary Clinton esprime l’opposto di quello che aveva rappresentato suo marito: lei non è giovane ma avanti negli anni, non è una outsider della politica ma parte dell’establishment, ed è donna, cosa che non sappiamo fino a che punto costituisca un vantaggio o svantaggio.