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Ecco da dove nasce lo storytelling della campagna di Hillary Clinton

E così è (ri)cominciata. Domenica 12 aprile Hillary Clinton ha annunciato ufficialmente la sua candidatura alla nomination democratica per la corsa alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2016. È la seconda volta dopo quella del 2008, quando fu sconfitta da Obama.

Nuovo website, nuovi profili sui social media, mail marketing e tutto l’armamentario della comunicazione politica degli anni 10. Nuovo logo. Una vistosa freccia rossa che attraversa l’iniziale del suo nome: H. Se n’è parlato moltissimo, già nelle prime ore, di quel logo, commentando, cercando assonanze e richiami visivi. Come si è parlato moltissimo del video che accompagna il lancio della campagna.

“I’m getting ready, dice la prima battuta pronunciata dalla madre di una famiglia che trasloca per essere più vicina alla scuola primaria della figlia. E poi, tutta una serie di personaggi emblematici che cominciano qualcosa. Due fratelli ispanici che aprono una nuova attività commerciale; una madre, che dopo aver cresciuto il figlio per cinque anni, torna al lavoro; una coppia della borghesia nera che attende un figlio; una neo-diplomata asiatica che si affaccia sul “mondo reale” alla ricerca di un lavoro; una coppia gay che si prepara al matrimonio; un bambino che muove i primi passi nel mondo; una donna che si prepara ad andare in pensione e a reinventarsi in mille modi; una coppia mista della working class che rinnova la casa e ha grandi speranze per il 2015; un giovane imprenditore che lavora sodo per rilanciare la compagnia mandata avanti da cinque generazioni della sua famiglia, perché il Paese è stato fondato sul duro lavoro ed è bello farne parte.

E poi, lei: Hillary. “Anch’io sono a pronta a fare qualcosa: corro per la Presidenza. L’America si è ripresa da tempi duri in economia ma le cose sono ancora sbilanciate a favore di chi è in vetta. Ogni giorno gli americani hanno bisogno di un campione. E io voglio essere quel campione. Così potete fare più del solo tirare avanti. Andare avanti! Perché quando le famiglie sono forti, l’America è forte. Così, sono in partenza per guadagnarmi il vostro voto. Perché ora tocca a voi e spero vi unirete a me in questo viaggio”.

E poi, il “super”, ossia, l’inquadratura finale con il logo e il claim della campagna: “Hillary for America”. Come?!? Cosa?!? “Hillary for America”?

[stacco, flashback, fine anni 90]

È un giorno come un altro nella vita di Josiah Bartlet. Chi è Bartlet? Discendente di uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, è premio Nobel per l’economia ed è stato tre volte deputato. Ora è governatore del New Hampshire. È in ufficio. Due membri del suo staff gli stanno presentando un’orrenda proposta di campagna pubblicitaria per lo Stato (“New Hempshire. It’s what’s new!”). Jed è perplesso. Che ci sarà mai di nuovo in una vecchia colonia. I suoi collaboratori balbettano di “strategia aggressiva…”. Jed li liquida frettolosamente.

E allora, la sua segretaria gli annuncia la visita di un vecchio amico, Leo McGarry che, nell’attesa, in anticamera stava scarabocchiando qualcosa su un tovagliolino. Saluti fraterni, pacche sulle spalle. “New Hempshire. It’s what’s new?”, chiede, scettico, Leo. Jed tira giù il bozzetto della campagna dal cavalletto su cui era esibito. La chiacchierata entra nel vivo. “Di che volevi parlarmi?”, chiede Jed a Leo. “Di una campagna politica”. “Oh, è grandioso!” Jed consiglia a Leo di pensare al Senato, ci saranno le consultazioni tra due anni. “No  dice Leo. Non pensavo al Senato. Pensavo alla Casa Bianca”. Bartlet, preoccupato, fa presente all’amico le difficoltà che potrebbe trovarsi davanti: Leo ha una vecchia storia di alcolismo e dipendenza dal Valium. “Vedi -  ribatte Leo  - non pensavo a me.” “E allora a chi?”, chiede Jed. “Guarda  – spiega McGarry - sono due settimane che, dovunque vada, mi trovo a scarabocchiare qualcosa.” “Cosa?”. Leo tira fuori il tovagliolino e senza dire altro, lo attacca sul cavalletto. Sullo spiegazzato quadratino di carta sono vergate solo tre parole: “Bartlet for America”.

“Bartlet for America” è il titolo del nono episodio della terza stagione di “The West Wing”. La serie che, per sette anni trionfali (1999–2006), ha fatto di Bartlet e del suo staff che lavora nell’Ala Ovest della Casa Bianca una leggenda della tv in America e nel mondo. Creata dallo sceneggiatore e autore teatrale Aaron Sorkin, vincitrice di 26 Emmy Award, la serie ha trasformato la narrazione della vita politica americana nello show che, forse più di ogni altro, ha aperto la strada a quel grande travaso di creatività dal cinema alla tv che ha segnato il nostro tempo. Ci sarebbe stato Frank Underwood senza Jed Bartlet? Probabilmente no.

E, tornando alla nostra storia, “Bartlet for America” è  –  come narrato in quell’episodio  –  il claim con cui Jed e i suoi conquistano la Casa Bianca per il primo mandato presidenziale.

Occhio: c’è una grande distanza tra la narrativa di Aaron Sorkin e quella dei creatori di “House of Cards”. Sì, anche in “West Wing” quello dell’esercizio del potere è un gioco assai duro. Ma lo storytelling di Aaron Sorkin ha una caratteristica precisa. Quasi sempre, i suoi protagonisti si trovano a dover fare una scelta: quella tra l’essere semplicemente una brava persona, anche di un certo valore, e la grandezza. E nelle sue storie arriva sempre quel momento in cui si deve decidere se  –  come si dice oggi  –  “fare la differenza”. Non c’è posto, nel mondo di Aaron Sorkin, per il brutale cinismo senza principi che ispira il rapporto con il potere di Frank Underwood. Semmai è, moralmente, molto più vicino all’America di Frank Capra e del suo Mr. Smith.
E, davanti a quelle tre parole scarabocchiate, Jed Bartlet, un uomo che potrebbe non avere altro da chiedere alla vita, si trova a scegliere la grandezza. La propria. Quella degli Stati Uniti.
Può sembrare un’asserzione elementare, se non banale: “Hillary for America”. Ma c’è, ormai, qualcosa che possa accadere per caso nel mondo delle strategie politiche? Un universo in cui ogni dettaglio è sottoposto alle analisi più minuziose? Sondaggi, analisi dei dati, scansione di metriche di ogni sorta. Può essere casuale una simile scelta?

Da ieri milioni di spettatori-elettori americani stanno scorrendo quelle immagini e quelle parole. L’America sta guarendo dalla crisi. Ma c’è ancora molto da fare. La strada per una nuova grandezza è ancora lunga. E lo storytelling della corsa di Hillary  –  una rincorsa che dura, ormai, da otto lunghissimi anni e ha, probabilmente, bisogno di sottrarsi alla scontata, banale e pericolosa condizione di front runner senza apparenti alternative  – parte da quello che potrebbe essere un vero e proprio, potente, ticket emotivo offerto all’immaginazione degli elettori: “Clinton & Bartlet for America”. E chissà cosa starà risuonando da ieri nelle menti di quei milioni di spettatori-elettori. Forse, una promessa di ottimismo, volontà e onestà ben radicata nella testa di un paio di generazioni di appassionati di serie tv.

Ha spiegato, una volta, Aaron Sorkin: “Il trucco è seguire le regole dello storytelling classico. Di fatto, la drammaturgia è basata su una cosa: qualcuno vuole qualcosa. E qualcosa o qualcuno si mette di mezzo. Non importa veramente cosa voglia il protagonista: denaro, una ragazza, un biglietto per Philadephia. Qualunque cosa sia, il pubblico deve desiderare che la ottenga.” E, insomma: come si potrebbe non volere la vittoria di Jed Bartlet?

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