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1992 e il pericolo di un nuovo saccheggio

Tangentopoli avviò una svendita selvaggia di grandi aziende pubbliche per la felicità di pochi e la disperazione di tanti. Questo processo di svendita pubblica passò sotto il nome di “privatizzazione” mentre il suo profilo era solo un saccheggio. E ci spieghiamo partendo da un ricordo personale. A metà 1991 il governo Andreotti con Carli, Formica e il sottoscritto nel ruolo di ministri finanziari avviò una vera privatizzazione di Cementir, società del gruppo Iri all’epoca guidata da Franco Nobili. Il metodo fu quello dell’asta pubblica. La Cementir interessava a molti tra cui la Fiat di Gianni Agnelli e il gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone.

È inutile raccontare le pressioni perché Cementir andasse a Torino, ma Carli, Formica ed io resistemmo e alla fine lo Stato incassò 200 miliardi di lire in più di quello che era il prezzo base a furia di rilancio tra i due contendenti. Quel metodo negli anni ‘90 non fu mai più utilizzato. Nel 1992-98 tutte le società pubbliche vennero “privatizzate” in due soli modi: mettendo l’intero pacchetto azionario dello Stato sul mercato o a trattativa privata. In entrambi i casi venivano favoriti gli amici degli amici.

Con il primo sistema furono privatizzati Credito italiano e Banca commerciale. Fu facile per le cordate organizzate dalla Mediobanca di Cuccia prenderne il controllo. Con poco più di 2mila miliardi di lire furono così messe sotto il controllo privato due banche che all’epoca raccoglievano oltre 200mila miliardi di lire. Con il secondo sistema (trattativa privata) Telecom fu quasi regalata alla Fiat che si era fatta carico di mettere insieme il famoso nocciolo duro per garantire la governabilità di un settore strategico come le telecomunicazioni.

Due esempi di un metodo scellerato che aprì le porte del nostro sistema creditizio a francesi (Credit agricole e Bnp Paribas), spagnoli (Santander e Bbvva), olandesi (ABNAmro) e tedeschi (Allianz). Il tutto, naturalmente, senza alcuna reciprocità con le altre grandi democrazie europee a partire da Francia e Germania, che non solo tennero in mani pubbliche le società in settori strategici, ma respinsero qualunque iniziativa straniera tesa ad acquisire partecipazioni di controllo in questi comparti. Per conferma chiedere a Carlo De Benedetti che si trovò contro l’intero sistema politico e finanziario francese quando era lì lì per assumere il controllo della Société général du Belgique.

Ad Agnelli addirittura fu impedito di comprare l’acqua Perrier, simbolo frizzante della grandeur parigina. Eppure questo episodio non impedì all’Avvocato di fare la mosca cocchiera per far entrare, dopo la folle liberalizzazione di Pierluigi Bersani del mercato elettrico nazionale, la Edf, che nel tentativo riuscito di acquisire il controllo di Edison fu contrastata solo dalla pubblica A2A, la società che gestiva le utilities di Milano e Brescia.

Oggi la francese Edison, un volto simbolo della milanesità, è il secondo produttore italiano di energia elettrica. Potremmo continuare con mille altri esempi, alcuni antichi, altri recenti. Dal passaggio della Bnl alla francese Bnp Paribas alla vendita di qualche mese fa di Avio agli americani della GE. Anzi su questa società è bene spendere qualche parola in più perché la sua storia è l’immagine plastica di ciò che è accaduto in questi vent’anni tra follie provincialistiche e tradimenti della Repubblica.

Era il ‘91 e l’avvocato Agnelli mi chiese di fondere Fiat Avio con Alfa Avio, società del gruppo Iri ricca di brevetti nel settore aeronautico. Dopo una valutazione della proposta la respinsi considerato il divario tecnologico tra le due società e vista la scarsa esperienza nel settore della casa torinese. Arrivò lo tsunami delle procure della Repubblica e la dirigenza politica dell’epoca fu spazzata via.

Guarda caso i governi successivi dettero il via alla fusione Fiat Avio-Alfa Avio, che assunse la denominazione Avio. Otto anni dopo la Fiat, come era prevedibile, gettò la spugna e Avio fu venduta al fondo Carlyle che dopo 4 anni nel 2006 cedette il controllo all’altro fondo di investimento, la Cinven, realizzando una plusvalenza di circa 1,5 miliardi di euro, mentre Finmeccanica, socio industriale di minoranza, entrava, vendeva e continuava a comprare sempre quote di minoranza “non per piacer mio ma per far piacere a Dio”, come dicevano le pudibonde fanciulle dell’Ottocento.

Sette anni dopo la Cinven fece la stessa cosa con una plusvalenza leggermente inferiore a quella di Carlyle e il governo Monti invece di fare intervenire il fondo strategico della Cassa depositi e prestiti l’ha venduta alla GE. Come volevasi dimostrare. Ma veniamo al nodo politico che sta dietro a questa svendita massiccia di aziende pubbliche. Tangentopoli aprì le porte a un pensiero unico che plaudiva al privato e criminalizzava il pubblico, dimenticando, in qualche caso dolosamente, che il mercato è neutrale rispetto alla natura della proprietà delle aziende.

Efficienza e corruzione attraversano alternativamente pubblico e privato. Nessuno ha detto mai, né lo dirà in futuro, che Paesi come la Francia e la Germania sono “statalisti”, pur conservando in mano pubblica oltre il 25% della propria economia. Ciò che è sfuggito alla classe politica di questi 20 anni è stato il fatto che nella globalizzazione la sovranità nazionale, il suo protagonismo e la difesa dei suoi interessi non passa più attraverso gli eserciti alla frontiera o alle alleanze militari come la Nato, ma dalla presenza significativa del proprio capitalismo nella finanza internazionale, nella formazione del capitale umano e nei settori strategici della ricerca e dell’innovazione.

Fuori da queste coordinate un Paese assume il profilo di una colonia di rango. Noi l’abbiamo assunto sino al punto che solo in Italia la politica fugge dal governo come è accaduto con Monti che non a caso è anche presidente della commissione Trilateral, associazione della ricchezza internazionale e dei suoi maître à penser fondata nel 1971 da David Rockefeller, l’avanguardia nella lotta tra finanza e politica nel governo del mondo. Negli anni ‘80 più volte Rockefeller chiese a Giulio Andreotti di far parte di quella commissione, invito sempre respinto con garbo visto che politica ed economia sono due poteri che devono rimanere distinti, pur dialogando. Ma allora vigeva la politica che sconfisse le Br e l’inflazione a due cifre mentre oggi la nostra democrazia affanna sotto le battute di un comico tragico che sta aiutando il Paese a precipitare nel baratro per la gioia dei grandi circoli finanziari internazionali pronti a un nuovo saccheggio.

 


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