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Unicredit, Intesa, Mps. Perché promuovo l’accordo Tesoro-fondazioni. Parla Angelo De Mattia

Ridurre al 33 per cento, entro un arco temporale compreso fra tre e cinque anni, la concentrazione del patrimonio in un’unica banca. Allentare la presa sugli istituti di credito e diversificare gli investimenti. Attività per cui sarà vietato l’indebitamento e il ricorso a derivati finanziari. Rispettare gli standard di trasparenza e le norme sull’incompatibilità con ruoli politici. Fissare a 240mila euro annui il tetto per la retribuzione dei manager.

Le linee strategiche della riforma delle fondazioni di origine bancaria contenuta nel protocollo di intesa firmato oggi dal responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan e dal presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti, prefigura un cambiamento rilevante.

Per capire meglio prospettive e effetti dell’accordo nei confronti degli istituti creditizi a partire dai tandem Compagnia San Paolo-Intesa e Cariverona-Unicredit, Formiche.net sentito Angelo De Mattia, già direttore centrale della Banca d’Italia e editorialista di MF-Milano Finanza.

Come giudica il protocollo di intesa fra Tesoro e Acri?

Molto positivamente. Valutazione che confermo e rafforzo ora che l’intesa ha superato il vaglio delle 88 fondazioni bancarie. È una via intelligente di auto-riforma, che fu prefigurata da Giuseppe Guzzetti nella Giornata nazionale del risparmio dell’ottobre 2014. Se la stessa strada fosse stata intrapresa da parte degli istituti di credito popolare, avremmo evitato un decreto legge frettoloso e fonte di molte perplessità. Provvedimento che io valuto negativamente.

Cosa apprezza nell’iniziativa promossa dalle fondazioni bancarie?

L’intervento relativo alla diversificazione degli investimenti con l’obbligo di non utilizzare più del 33 per cento del patrimonio in un unico asset. La limitazione della facoltà di indebitamento per operazioni come l’aumento di capitale nella banca di riferimento, e del ricorso a derivati finanziari. Il vincolo di trasparenza verso l’opinione pubblica, garantito dal controllo del Ministero dell’Economia. Gli strumenti di prevenzione di incompatibilità e conflitti di interesse per evitare la prassi delle porte girevoli tra incarichi, nonché tra fondazioni, istituti di credito e politica. Situazione che ha talvolta consentito alle fondazioni di interferire nella gestione della banca. I cambiamenti potranno rafforzare il ruolo storico delle fondazioni: enti privati di utilità sociale di supporto alla ricerca, all’assistenza, alla cultura, all’arte.

Quale sarà l’effetto del provvedimento per le grandi banche come Intesa San Paolo e Unicredit?

È necessario valutare cosa accadrà nella fase transitoria prevista per ridurre le partecipazioni eccedenti delle fondazioni nel capitale bancario. Le fondazioni hanno svolto un ruolo di investitore istituzionale che finora ha costituito un fattore di stabilità degli istituti di credito. Mi chiedo ora chi interverrà per integrare tale missione, mentre si attua la diversificazione degli investimenti.

La previsione dell’obbligo di vendita è tardiva o costituisce una scelta coerente con le esigenze di rafforzamento patrimoniale e ricerca del capitale nel mercato?

È una decisione raccordata con i tempi. Negli anni Novanta le fondazioni di origine bancaria si sono ritrovate proprietarie della totalità degli istituti di credito a seguito della riforma della banca pubblica. Una quota delle loro partecipazioni è stata poi messa sul mercato, contribuendo al rafforzamento e alla ristrutturazione del sistema nel nostro paese. Oggi la realtà è mutata e se ne deve tener conto. Vi è peraltro un ulteriore elemento significativo.

Quale?

Tali partecipazioni hanno fornito le risorse necessarie per realizzare gli obiettivi non profit di valorizzazione del territorio fissati dalla legge Ciampi del 1998. Missione mantenuta anche quando sono diminuiti gli utili bancari, aumentate le sofferenze delle banche e accresciute le necessità di concorrere agli aumenti di capitale. Per questo motivo ritengo balzana l’idea di conferire il patrimonio delle fondazioni allo Stato.

Al contrario di quanto avvenuto per le banche popolari, le fondazioni hanno sventato il rischio di un’iniziativa del governo. L’Acri ha beneficiato dell’abilità diplomatica del proprio presidente?

Più che diplomatico, il ruolo di Guzzetti è stato progettuale e preveggente. Egli ha capito che i tempi erano maturi per modificare le regole in alcuni campi di intervento delle fondazioni. E che la mancanza di azione avrebbe favorito l’approvazione di regole coercitive molto più foriere di danni che di vantaggi. L’auto-riforma, che presenta contenuti pregnanti e incisivi, è stata preferita alle incertezze e ai rischi della strada legislativa. E può rappresentare un modello per interventi di innovazione nel terreno finanziario.

Come valuta l’intervento del governo sulle maggiori dieci banche popolari?

La riforma delle Popolari, problema risalente fin dalla metà degli anni Settanta, avrebbe richiesto un’autonoma iniziativa prima che arrivassero provvedimenti esterni pesanti come il pessimo decreto legge governativo. Al contrario, ci si è cullati nella speranza che ciò non sarebbe accaduto. I ritardi di quel mondo sono stati rilevanti. Spero in un approdo migliore per le banche di credito cooperativo impegnate in un progetto di auto-innovazione.

Le fondazioni potranno entrare nel capitale delle banche popolari?

Guzzetti ha affermato che in linea teorica ciò è praticabile. Bisognerà vedere caso per caso in relazione all’entità degli interventi. E sarà necessario valutare i progetti di aggregazione o scorporo che vedranno protagonisti gli istituti di credito in questione.

Nella versione originaria del disegno di legge sulla concorrenza i tecnici del Ministero per lo Sviluppo economico avevano attribuito alla Banca d’Italia anziché al Tesoro il ruolo di vigilanza per le fondazioni. Avrebbe condiviso la scelta?

No. L’avrei considerata impropria e al di fuori della logica istituzionale. Bankitalia ha un perimetro di intervento molto preciso e netto. È bene che il controllo nei loro confronti resti in capo a un organo come il Ministero dell’Economia e, in prospettiva, si potrebbe immaginare un organismo di vigilanza diverso. Ma escludo Bankitalia, i cui poteri riguardano, per ben limitati aspetti, anche gli azionisti delle banche (dunque pure le fondazioni, ma solo entro questi stretti limiti).

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