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Libia, ecco l’origine del caos. L’analisi di Affari Internazionali

A quattro anni dalla risoluzione Onu 1973 e dalla missione Unified Protector, il disordine in Libia è ancora centrale nell’agenda politica italiana e internazionale e la sua attualità nel dibattito pubblico è stata rilanciata dall’ingresso in scena dell’Isis. 

A differenza di altre crisi internazionali, qui non sono in gioco solo il prestigio di Roma o la sua esposizione economica. Il dilagare dell’anarchia rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza nazionale italiana, tanto da costringere il governo a riflettere su ogni opzione valida se la situazione dovesse precipitare.

Ma quali sono state le condizioni che hanno reso possibile questa deriva? E quali scenari erano ipotizzabili nel 2011?

RIAMMISSIONE DELLA LIBIA

La fine della Guerra Fredda impose al regime di Gheddafi un ripensamento strategico dei suoi rapporti con l’Occidente. Il riavvicinamento passò per l’ammissione della responsabilità oggettiva nella strage di Lockerbie e il risarcimento alle famiglie delle vittime (2003), la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, la rimozione dalla lista degli Stati canaglia e la collaborazione nella guerra globale al terrorismo (2004) e la disapplicazione dell’Iran-Libya Sanctions Act (2006).

Parallelamente si sviluppò una nuova distensione con l’Italia. Berlusconi e Gheddafi raggiunsero un intesa (2003), confermata successivamente da Prodi, sul risarcimento dei danni coloniali, che sarebbe stato perfezionato con la costruzione di un’autostrada tra Tripoli a Bengasi.
L’emblema della distensione fu il Western Libyan Gas Project, per cui l’Eni e la Lnoc realizzarono il gasdotto sottomarino Green stream (2004). Si giunse così al Trattato di Bengasi (2008), che come effetto indiretto, tra il 2009 e il 2011, determinò la riduzione del 99% del flusso di clandestini verso la Penisola.

Alla fine del primo decennio degli Anni 2000 l’interesse dell’Italia non era la rivoluzione dello status quo, per quanto non ottimale, ma la preservazione di un ordine favorevole ai suoi interessi e un passaggio dei poteri a Saif al Islam Gheddafi, considerato il volto moderato del regime.

MUTAMENTO DELLE CONDIZIONI

L’attenuamento del disordine in Iraq, il progressivo ritiro della forza multinazionale e la riduzione della minaccia di al Qaeda diminuirono l’importanza politica della Libia. Al contrario, l’instabilità del Medio Oriente e il rally delle risorse energetiche ne accrebbero il ruolo economico, rafforzando la posizione dell’Italia.

L’azzeramento della situazione in Libia non fu in discussione fino al perdurare di tre condizioni ostative: a) il credito dei governi italiani con l’amministrazione Bush per l’appoggio alle missioni in Afghanistan e Iraq; b) il profondo impegno degli Stati Uniti in tutte le aree di crisi del globo; c) l’assenza di presupposti che giustificassero l’ingerenza delle potenze esterne.

Nel 2011 queste condizioni sono venute meno per quattro fattori che hanno trasformato le proteste di piazza in una guerra civile internazionalizzata:
a) la discontinuità dell’amministrazione Obama con la politica estera del suo predecessore e con la rete di crediti/debiti ad essa collegata;
b) lo spostamento della sua attenzione dal Grande Medio Oriente al quadrante Asia-Pacifico;
c) la scelta americana di affidarsi agli alleati nelle regioni non vitali per l’interesse nazionale;
d) la risoluzione 1973 (marzo 2011) che istituì una zona d’interdizione al volo per tutelare l’incolumità della popolazione civile libica.

La Francia e la Gran Bretagna spinsero per un’interpretazione ampia della risoluzione, che si tradusse nell’intervento militare di cui furono inizialmente alla testa. Il loro obiettivo non ufficiale era riempire il vuoto politico generato dalla rinuncia degli Stati Uniti al ruolo di “nazione necessaria” in Nord Africa e ridisegnare i rapporti di forza nel settore energetico libico.
Questi obiettivi internazionali si coniugavano con alcune necessità interne. Sarkozy era alla ricerca di un successo internazionale che lo avrebbe rafforzato nella corsa per l’Eliseo del 2012, mentre Cameron auspicava un effetto ‘mobilitazione nazionale’ per sopperire al crollo dei consensi.

L’inefficacia delle prime incursioni aeree, tuttavia, impose l’unificazione delle operazioni militari sotto l’egida Nato, cui aderì anche l’Italia. La scelta interventista fu dettata dalla duplice necessità di partecipare alla ridefinizione degli equilibri interni alla Libia a conflitto terminato e di evitare una campagna di delegittimazione internazionale.
Già all’indomani della rivolta in Cirenaica i più importanti organi europei di stampa pubblicarono alcuni articoli scandalistici sulle relazioni tra Roma e Tripoli, tra cui “Forget the elephants” su Le Monde Diplomatique (11 marzo) e “Italy’s shame in Libya” su The Economist (25 febbraio).

SCENARI 

I contorni della guerra civile erano tanto indefiniti da rendere verosimili una serie di scenari e rischi profondamente diversi:
1) una guerra civile prolungata (modello Somalia), che avrebbe causato la presenza davanti alle coste italiane di uno Stato fallito diviso in più entità autonome e il verificarsi di esodi apocalittici, emergenze sanitarie, terrorismo e contrabbando di armi;
2) il fallimento strisciante della Libia (modello Libano), determinato dalla presenza di alcune porzioni di territorio fuori dal controllo del governo centrale, le cui derive più estreme sarebbero state evitate solo dall’intervento di forze internazionali, i cui costi maggiori sarebbero spettati all’Italia;
3) la vittoria dei lealisti (modello Algeria), per cui Gheddafi, o i suoi eredi politici, avrebbero messo in atto una serie di ritorsioni contro il “tradimento” italiano;
4) la vittoria dei ribelli (modello Iraq), che avrebbe causato l’emergere di una classe politica di matrice islamista e la revisione degli accordi politici ed economici siglati dal precedente regime.

Lo scenario che sembra delinearsi oggi è quello del “modello Somalia” e rappresenta la conferma di come gli interventi umanitari a basso costo, senza la fase truppe sul terreno, producono conseguenze di gran lunga peggiori di quelle che vogliono evitare.

Gabriele Natalizia è Ricercatore di Scienza politica, dell’Università Link Campus di Roma.


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