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Libia e sbarchi, ecco cosa fare (forse)

Se ne sono lette e sentite di tutti i colori dopo la catastrofe al largo della Libia. Nessuno sa veramente cosa fare, quindi tutti parlano e ognuno se ne esce con una proposta. Proviamo a metterne insieme qualcuna. Il refrain più ripetuto è “non possiamo essere lasciati soli, la Ue deve intervenire”. Giusto. Ma come? Deve dare più soldi e mezzi ai Paesi di frontiera, d’accordo. Proprio in queste ore un nuovo naufragio è avvenuto al largo di Rodi. Dunque non c’è sono l’Italia, anche se è senza dubbio quella sulla quale viene esercitata la maggiore pressione. Ma risorse e mezzi per fare che cosa?

Il blocco navale? E’ l’altra idea che va per la maggiore. “E’ semplice”, dice Matteo Salvini. Eureka. Ma come mai nessuno ci ha pensato? Forse a nessuno ha lo stesso quoziente intellettuale e la stessa preparazione bellica (a proposito, avrà fatto il soldato?) del capo della Lega? Possibile, ma va provato. Anche chi è d’accordo con il blocco navale si rende conto che deve avere delle regole d’ingaggio militari molto ferree. In sostanza, bisogna sparare a chi forza il blocco. Più in generale, affinché sia efficace deve essere efficace per davvero; non è un gioco di parole. Basta che qualche scafo sfugga alla sorveglianza ed ecco che l’intera operazione diventa una clamorosa sconfitta. Non sarà per questo che gli ammiragli tremano alla sola idea di essere ingaggiati in una operazione del genere.

Bisogna impedire che i barconi partano, lo dice anche Federica Mogherini la quale pure è contraria al blocco navale. Per questo occorre stare sul territorio con una soluzione politica (un accordo tra le tribù libiche e un governo di unità nazionale) accompagnata da un sostegno militare di peace-keeping e peace-enforcing. Da più parti si cita l’esempio loya jirga in Afghanistan maturata proprio tra Italia e Stati Uniti. Bene, però l’Afghanistan era stato prima invaso da un’ampia coalizione guidata dagli Usa. Qui si propone di fare il contrario. Buona fortuna.

Ammesso che sia possibile bloccare l’esodo alla fonte, esiste il problemino giuridico, politico, etico che riguarda lo status di rifugiato. Chi ne ha i requisiti, deve trovare ospitalità nei Paesi guidati da regimi liberal-democratici. L’anno scorso l’Italia ha avuto 65 mila domande di asilo, è il terzo Paese dopo la Germania (oltre 200 mila) e la Svezia (85 mila, ma su una popolazione di solo 9 milioni di abitanti) e prima della Francia (circa 60 mila). Sono persone che non possono essere rimandate a casa, respinte o bloccate in campi profughi sulle coste libiche o siriane (perché tra i paesi ormai totalmente allo sfascio non c’è solo la Libia).

Un’altra ricetta snocciolata da esponenti del governo è agire alle spalle della Libia, trattando con i Paesi dai quali s’innesca l’esodo. Tra questi uno dei più importanti è il Sudan. C’è qualcuno a Palazzo Chigi o alla Farnesina che pensa si possa raggiungere con il Sudan un accordo affidabile tipo quello raggiunto con Gheddafi? Davvero è realistica una ipotesi del genere?

Molti gettano la palla avanti, sostengono che si tratta più di emergenza, ma di un mutamento permanente degli orizzonti geopolitici e sociali del nostro mondo. Quindi ci vuole una politica di lungo periodo. Hanno ragione, ma nel frattempo che si fa? Continuiamo a raccogliere cadaveri?

Il ritorno puro e semplice a Mare Nostrum è irrealistico e sbagliato, proprio perché la questione non è più umanitaria, ma politica e militare, su questo Matteo Renzi ha ragione, anzi ha avuto il coraggio di dirlo, facendo un passo avanti rispetto alle solite lacrime di coccodrillo, per poi fermarsi di fronte alla montagna di difficoltà.

Tra l’altro c’è da chiedersi in modo molto franco se i nostri nemici (chiamiamoli come meritano) sono dei semplici per quanto orrendi trafficanti di schiavi, magari organizzati e in  combutta con qualche multinazionale del crimine, oppure se si sta concretizzando la minaccia scagliata dall’Isis di usare questi poveri bersagli umani per attaccare l’Europa e l’Occidente.

Vedremo come si svilupperà il dibattito europeo. Può darsi che si rompa il colpevole muro dell’indifferenza. E in ogni caso bisognerà insistere finché ciò non avviene. Nel frattempo, però, l’Italia deve contare sulle proprie forze e muoversi senza aspettare Bruxelles. Come?

Non vogliamo aggiungerci alla lista dei dottori attorno al capezzale del moribondo, però ci sembra un suggerimento di buon senso invitare Renzi a riunire un “gabinetto di guerra” che metta insieme il governo, gli alti comandi militari e di polizia, la magistratura e il Quirinale, per studiare un piano articolato che va dal contenimento con mezzi aereo-navali e regole d’ingaggio chiare, a una rete di accoglienza degna di questo nome, mobilitando strutture pubbliche (perché non utilizzare l’immenso patrimonio di palazzi, case e caserme deserte in attesa di essere utilizzate?), associazioni caritatevoli, ong, la Chiesa, coordinate da un commissario straordinario.

Le risorse economiche destinate ad affrontare questa crisi che non è meno grave e importante della crisi finanziaria, non possono entrare nel patto di stabilità. Se ciò vale per gli ammortizzatori della recessione economica, tanto più deve valere per interventi contro la recessione umana e di civiltà.

Occorre poi valutare se le attuali norme sono adeguate, perché a fronte di una seria rete di garanzia è doveroso, mettere in atto una politica di espulsione di chi non ha i requisiti necessari. E a questo punto bisogna ingaggiare un braccio di ferro con quei Paesi che vogliono lavarsene le mani. Di fronte a una strategia ferma e ben strutturata, l’Italia avrebbe tutte le carte in regola per sfidare l’ignavia di Bruxelles e pretendere una redistribuzione pro quota dell’onda umana che sta sconvolgendo il Vecchio Continente. E’ ovvio che innanzitutto la divisione degli oneri deve essere equa anche all’interno dell’Italia, nessuno si può tirare indietro.

Tutto questo non risolve il problema di fondo, l’immigrazione strutturale, quella di natura economica o culturale. Ed è chiaro che nessuno ha la soluzione bell’e fatta (basti pensare agli Stati Uniti e alla frontiera con il Messico). Tuttavia è arrivato il momento che l’Italia compia scelte coraggiose, ha piena legittimità per farlo e non ha bisogno di imprimatur esterni; anzi, poi avrà più titoli per invocare la Ue, gli Usa, l’ONU o il kantiano governo mondiale quando ci sarà.

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