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Libia e sbarchi, perché Renzi non può esultare troppo

Al consiglio europeo straordinario l’Italia aveva chiesto tre cose: licenza di distruggere i barconi dei trafficanti di uomini non all’arrivo, ma in partenza; una divisione pro quota dei rifugiati che domandano asilo; l’aumento dei fondi e dei mezzi per Triton. Sul terzo punto ha avuto soddisfazione perché i fondi sono stati triplicati e arriveranno più navigli, sul primo tutto è rinviato all’Onu dove Francia e Uk presenteranno una risoluzione, mentre sulla ripartizione del peso sociale e politico la Ue ha dimostrato ancora una volta il suo limite di fondo: quell’egoismo nazionale, quel rifiuto di condividere gli oneri dello stare insieme che già si era manifestato in modo drammatico durante la crisi dei debiti sovrani.

Il bicchiere, dunque, è uscito mezzo vuoto, non si capisce come faccia Renzi a esultare. Non solo, se David Cameron nella sua cinica franchezza britannica dice il vero, si sa già come finirà: le navi di Triton porteranno profughi e naufraghi “nel paese sicuro più vicino” cioè in Italia e qui resteranno, perché l’asilo va chiesto nel paese di sbarco. Dunque, avremo le mani legate.

Paradossalmente, l’intera faccenda si chiude limitando la nostra libertà di manovra, la nostra sovranità? E’ quel che temono le autorità di polizia italiane e il ministero dell’Interno.

Una beffa bella e buona, favorita dal fatto che non esiste una legge europea sul diritto di asilo. Anche questo del resto mette in luce la limitatezza del cosiddetto progetto europeo.

L’immigrazione è un problema spinoso e complesso, non c’è dubbio, coinvolge sicurezza, economia, valori, i principi stessi della convivenza nazionale. Tanto più ci sarebbe bisogno di una griglia comune all’interno della quale ogni paese potrebbe combinare le proprie esigenze. Così non è. Con una ulteriore variante.

Questa volta non ci troviamo di fronte a una emigrazione per ragioni economiche, sociali o culturali, ma a una fuga in massa da una guerra ad ampio raggio e di lunga durata che sta sconvolgendo il mondo musulmano. Una guerra che si manifesta in una catena di conflitti collegati l’uno all’altro come in una reazione a catena. La posta in gioco è altrettanto vasta e complessa: l’egemonia politica, militare e religiosa sui “sottomessi”. A contendersela sono Iran e Arabia saudita, utilizzando come carne da cannone una generazione intossicata da un Islam fondamentalista e da una propaganda contro crociati, infedeli e l’occidente usato come nemico comune, quindi come collante esterno.

Tutto ciò non riguarda l’Italia, il Regno Unito, la Germania o la Polonia, cioè le singole nazioni, ma l’Europa nel suo complesso e gli Stati Uniti. Ci investe tutti sul piano culturale e ideale, dal punto di vista della sicurezza collettiva e più in generale al livello degli equilibri geopolitici.

Sono affermazioni banali nella loro evidenza, tutti lo capiscono, è impossibile che Cameron, Hollande, la Merkel e Obama non lo sappiano. Ma lo rimuovono, fanno finta di ignorarlo perché non sono in grado di spiegarlo all’opinione pubblica (che in realtà lo ha quanto meno intuito oltre a sopportarne le conseguenze nella vita quotidiana), di reagire e di affrontarne le conseguenze.

Altro che patto di stabilità, altro che pareggio di bilancio, qui c’è da destinare grandi risorse al contenimento, anche militare, delle conseguenze di questa nuova guerra a geometria variabile. Ma il coté economico questa volta è meno importante di quello politico e ideale: dobbiamo chiarire a noi stessi chi siamo, in quale società vogliamo vivere, in definitiva se siamo davvero ridotti come “l’ultimo uomo” di Nietzsche, così narcisista ed esangue da essere pronto all’arrivo di un “superuomo” abbigliato questa volta non come Zaratustra, né come Hitler, ma con il turbante di Maometto.

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