Mario Segni, che pure deve al ciclone giudiziario e politico del 1992 buona parte delle sue fortune referendarie, tradottesi l’anno dopo nella scure sul sistema elettorale proporzionale e sui partiti che ne avevano tratto i maggiori vantaggi, si è rivoltato contro le parti erotiche della serie televisiva dedicata da Sky a quella stagione.
Da galantuomo com’è – qualche volta tanto ingenuo, in verità, da finire strumentalizzato da alcuni dei sostenitori delle sue iniziative, e persino da perdere il biglietto della lotteria referendaria quando, nel 1993, ebbe l’occasione di giocare la partita della successione al primo governo di Giuliano Amato – il povero Segni è sobbalzato sulla poltrona di casa quando si è visto rappresentato con un bel po’ di ragazze, diciamo così, disponibili a tentarne la carne. Gli sarebbero state mandate in un ristorante dal giro di Silvio Berlusconi per predisporlo ad un’alleanza per i futuri equilibri politici.
L’accordo fra Berlusconi e Segni, come si sa, non ci fu. E non perché quelle ragazze non fossero sufficientemente attraenti, o Segni avesse voluto e saputo resistere alle loro tentazioni. No. Non ci furono né le ragazze né l’intesa per il semplice fatto che Segni aveva ben altro per la testa.
Il leader referendario coltivò per un po’ l’illusione, passatagli solo nell’immediata vigilia delle elezioni politiche anticipate del 1994, che il Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto nell’esordio del sistema maggioritario avesse il buon senso, o la furbizia, di chiamare proprio lui a capeggiare una coalizione moderatamente progressista. Occhetto invece preparava una “giocosa macchina da guerra” guidata dai suoi compagni di partito, che di fronte alle macerie del muro di Berlino avevano rinunciato a chiamarsi comunisti, ma non ad esserlo. Ne derivarono la clamorosa sconfitta della sinistra e l’ancora più clamorosa vittoria del centrodestra berlusconiano.
A quelle del democristiano o post-democristiano Segni è seguita la testimonianza del socialista Claudio Martelli contro il ricorso alle ragazze di richiamo, al tavolo o al letto, per sedurre politicamente a destra avventori indecisi o avidi, secondo i casi. Erotismo e politica si sarebbero in qualche modo combinati molto dopo.
Nel 1992 bastarono e avanzarono, per determinare gli eventi giudiziari e i conseguenti effetti politici, le complicazioni sentimentali di Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio mentre intascava una tangente nel suo ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio. La moglie di Chiesa, furente per essere stata prima lasciata dal marito e poi costretta a defatiganti e deludenti trattative per avere un trattamento economico adeguato, si presentò negli uffici della Procura della Repubblica e aiutò gli inquirenti a trovare i conti esteri e segreti dell’ex consorte. Fu la breccia decisiva.
Martelli ha smentito un’altra circostanza della ricostruzione televisiva di quell’ormai lontano 1992: un incontro a pranzo fra Antonio Di Pietro, il magistrato diventato subito il simbolo delle indagini su Tangentopoli, e Giovanni Falcone, che era tra i principali, se non il principale collaboratore dello stesso Martelli alla guida del Ministero della Giustizia. Falcone – ha fatto capire Martelli – era visto con troppa diffidenza alla Procura di Milano per ricevere o accettare un invito conviviale di quel tipo. Una diffidenza rivelata da una fonte insospettabile come Ilda Boccassini, che contestò pubblicamente ai suoi colleghi magistrati l’abitudine di mandare agli uffici di Falcone, magistrato pure lui, le pratiche delle rogatorie all’estero monche dei documenti più delicati.
Un passaggio cruciale dell’inchiesta su Tangentopoli, nota appunto come “Mani pulite”, fu certamente quello del mancato ricorso al processo per direttissima a Chiesa, arrestato in flagranza di reato. Secondo la ricostruzione di Sky ad evitare la procedura di urgenza, che avrebbe potuto delimitare la vicenda giudiziaria, fu lo scaltro sostituto Di Pietro, dimenticatosi della scadenze procedurali fra la sorpresa o le proteste di Francesco Saverio Borrelli, capo della Procura di Milano.
Eppure negli ambienti socialisti milanesi, dove Di Pietro contava molti amici ed estimatori, che lo chiamavano affettuosamente Tonino, l’impressione fu diversa. Che fosse cioè Borrelli quello ad avere meno fretta di andare al processo contro Chiesa per non compromettere l’espansione delle indagini. Per il cui rafforzamento lo stesso Borrelli provvide ad affiancare a Di Pietro il sostituto Gherardo Colombo: un segnale che indagati e indagandi avvertirono come un ulteriore giro di chiave nei loro riguardi.