I successi di Eni in nord Africa creano qualche invidia oltreoceano e in alcuni Paesi europei? E’ la deduzione fatta da molti osservatori dopo aver letto le “stilettate” del Wall Street Journal, che ha accusato l’Eni di godere della protezione delle milizie islamiche in Libia, e riuscire così ad essere “l’unica compagnia petrolifera internazionale che ancora pompa petrolio nel Paese dilaniato dalla guerra“.
Tutto ciò perché, secondo il quotidiano americano, il colosso italiano degli idrocarburi “è aiutato da una protezione congiunta delle milizie e delle tribù”. Il Wsj ha ricordato maliziosamente come i rischi per la sicurezza della Libia abbiano paralizzato l’operatività di Total, Repsol e l’americana Marathon Oil, che hanno sospeso anche la produzione onshore nel Nord, senza danneggiare invece troppo l’attività del Cane a sei zampe.
E’ la verità? In parte sì. Che la compagnia guidata dall’ad Claudio Descalzi sia il maggior player del settore in Africa è un dato inconfutabile e le attività in Libia ne costituiscono un pezzo rilevante. Quel che invece non ha convinto analisti ed esperti è il giudizio che il giornale statunitense assegna ai risultati di Eni.
Gli addetti ai lavori non hanno mai nascosto l’apprezzamento – ribadito di recente a Londra a margine della Strategy presentation – per il lavoro del Cane a sei zampe in un territorio così difficile, ma nel quale la compagnia italiana può contare su una marcia in più rispetto ai diretti competitor. A spingere i profitti di Eni non è solo la presenza italiana del passato, ma anche e soprattutto le mosse del nuovo management e la memoria mai sopita del pionieristico approccio del gruppo energetico.
Ecco perché quella del quotidiano americano è apparsa a molti osservatori una critica immotivata, frutto, semmai, della competizione e dell’interessamento di alcune compagnie anglosassoni. D’altronde è noto: in guerra, anche se economica, tutto è permesso. O no?