Il nuovo re Salman bin Abdulaziz ha impresso un nuovo dinamismo alla politica interna ed estera dell’Arabia Saudita. All’interno ha ringiovanito i responsabili politici del Regno, accelerando l’ascesa al trono della terza generazione della famiglia reale. Il nuovo crown prince ha 55 anni. Il suo vice, terzo nella linea di successione, 35. Spera di rendere più efficiente e solido il Regno.
All’esterno, ha ricercato la leadership sul mondo arabo e l’unità di quello sunnita. Tale rivendicazione era iniziata nel 1962 con la costituzione della Muslim World League, la cui importanza è spesso sottovalutata. Le sue charities finanziano il 60% delle moschee in Italia. Volta a esportare il rigorismo proprio dell’Islam saudita, la Lega in un primo tempo ha contrastare l’espansione del nazionalismo arabo, voluta da Nasser, e la sfida posta dal secolare partito Baath. Dopo la rivoluzione komeinista, essa si è contrapposta allo sciismo e all’Iran, rafforzando i già stretti legami con gli Usa, protettori dal 1945 del Regno e della dinastia ibn Saud.
Oggi, la minaccia principale all’Arabia Saudita è costituita dall’Iran. Teheran ha approfittato dell’eliminazione di Saddam Hussein per dare continuità alla sua area d’influenza nella “mezzaluna fertile” mediorientale, congiungendosi attraverso l’Iraq e la Siria con l’Hezbollah libanese. Teheran cerca di espandersi anche nello Yemen, sostenendo la rivolta degli Huthi. Riad pensa che si stia delineando una minaccia sciita anche da Sud, che si aggiunge a quella delle minoranze sciite del Golfo, finora dominate con un pugno di ferro dalle dinastie sunnite.
Altre minacce sono rappresentate dalla “primavera araba”, dai movimenti islamisti (Stato Islamico e al-Qaeda) e dalla propaganda della Fratellanza Musulmana, che erode la legittimità politica e anche religiosa della monarchia. La percezione saudita del rischio rappresentato dalla Fratellanza è mutato nel tempo. Riad le aveva dato rifugio dal 1954 alla fine degli anni ’70, quando i Fratelli, fautori di una specie di “repubblicanesimo islamico”, critico delle dinastie ereditarie, e della prevalenza degli Stati sulle tribù, erano perseguitati in Egitto. La collaborazione era stata particolarmente stretta nel contrasto all’occupazione egiziana dello Yemen dal 1962 al 1967. Riad aveva allora sostenuto l’Islah, branca yemenita della Fratellanza, e anche gli Zaiditi, che sono poi gli attuali Huthi, sciiti e legati a Teheran. Successivamente, aveva combattuto i Fratelli, dichiarandoli terroristi, che mettevano in pericolo la stabilità del Regno e sostenuto il golpe in Egitto contro di loro.
Il contrasto alla Fratellanza Musulmana aveva creato tensioni fra gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, vanificando il progetto saudita di trasformarlo in una specie di Nato del Golfo, contrapposta all’Iran. In particolare, il Qatar, sempre più legato alla Turchia in Siria e in Libia, ma anche il Kuwait e l’Oman, erano e sono contrari a una contrapposizione frontale con Teheran. Soprattutto il primo, unitamente alla Turchia, sostiene apertamente la Fratellanza. Ankara vede in essa uno strumento per espandere il suo “modello” nei paesi che hanno conosciuto la “primavera araba” e per realizzare i sogni neo-ottomani di parte della sua classe dirigente.
Riad ha troppi nemici. Il nuovo re ha deciso di definire una scala di priorità delle minacce, concentrandosi su quella prioritaria, rappresentata dall’Iran, il cui punto più vulnerabile è la Siria. Per far questo ha bisogno della Turchia, che non può cooperare con l’Arabia Saudita se essa continua a condannare la Fratellanza. L’eliminazione di quest’ultima dal governo dell’Egitto ne ha attenuato la pericolosità per Riad. Ciò ha permesso una cauta apertura del nuovo re saudita nei riguardi dei Fratelli e consentito un avvicinamento alla Turchia e al Qatar, essenziali per la costituzione del “blocco sunnita” perseguita da Riad sia per lo Yemen che contro lo Stato Islamico. Beninteso l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ha protestato ma le sue reazioni sono state per la sua dipendenza dagli aiuti delle dinastie del Golfo.
Ma qual è la causa contingente di un mutamento tanto profondo della precedente politica saudita? Quali le possibili conseguenze? Quali le possibilità, la durata e i limiti di una collaborazione fra Riad e la Fratellanza Musulmana?
Il motivo del mutamento è stato di certo l’avvicinamento fra gli Usa e l’Iran. L’Arabia Saudita teme che non riguardi solo il nucleare, ma gli assetti geopolitici del Golfo, che verrebbero comunque modificati dall’attenuazione delle sanzioni che consentirà a Teheran di disporre di maggiori risorse anche per la sua politica estera. Esiste a Riad una paranoia circa un rovesciamento delle alleanze Usa nel Golfo a favore dell’Iran.
Essa non è basata solo sui negoziati in corso sul nucleare, ma anche sul mancato intervento Usa contro Assad e sulle critiche occidentali all’intolleranza religiosa esistente in Arabia Saudita. Riad si sente in parte abbandonato dal suo tradizionale protettore. Significative al riguardo, sono state le sue reazioni alla recente visita del presidente francese François Hollande. Egli si è espresso a favore delle posizioni dure contro la proliferazione nucleare iraniana, non solo dell’Arabia Saudita, ma anche di Israele e della Turchia. Forse in cambio d’interessanti affari, ha garantito il suo appoggio alla stabilità del Golfo. Beninteso, è retorica. Parigi non ha i mezzi per sostituire gli Usa né il peso politico per indurre altri Paesi europei a unirsi alla Francia nel concorrere alla sicurezza della regione. L’entusiasmo per le dichiarazioni di Hollande confermano le preoccupazioni saudite sull’affidabilità della protezione Usa.
La cauta apertura saudita nei confronti della Fratellanza Musulmana può forse facilitare la creazione di un blocco sunnita anti-iraniano. Ma anch’esso non potrebbe far fronte all’Iran. Gli Stati del Golfo continueranno ad essere divisi fra loro e deboli al loro interno. Sono Stati tribali, non nazionali. Non possono costituire un coerente sistema di sicurezza, malgrado le enormi spese militari effettuate. Lo dimostra anche le difficoltà dell’intervento in Yemen contro gli Huthi. Non è da escludere che Riad pensi di avere l’appoggio della branca yemenita della Fratellanza, come cinquant’anni fa. Ancora più importante è l’avvicinamento alla Turchia per intervenire contro il punto più debole iraniano: la Siria di Bashar al-Assad. L’attacco contro lo Stato Islamico può essere rimandato. Per il momento ci pensano gli americani e gli iracheni. I risultati già si vedono. L’esercito alawita ha subito duri colpi, specie nel nord ovest del paese. Assad, che sembrava vincitore, non sa più per quanto possa ancora resistere.
La capacità di tenuta interna della monarchia saudita potrebbe però essere diminuita da una tolleranza nei confronti della Fratellanza Musulmana. Non è infatti da escludere la reazione delle intolleranti forze wahhabite, pilastro della Casa Reale. Nel 1744, esse si accordarono con la tribù degli Ibn Saud. Si impegnarono a sostenerla, in cambio del suo aiuto all’espansione della loro radicale interpretazione dell’Islam. La Famiglia Reale teme la rottura di quel patto. Esso mantiene unite le tribù del Regno sotto la Casa Reale. Anche se i Fratelli sono devoti sunniti, una loro completa e duratura collaborazione con i sauditi appare improbabile. L’unità sunnita contro gli sciiti e l’Iran sembra improbabile. La sicurezza saudita può essere garantita solo dalla continuazione della presenza americana nella regione. Anche il re Salman deve esserne convinto. Lo dimostra la nomina a Ministro degli esteri dell’ambasciatore saudita a Washington, noto per i suoi legami con gli Usa.