Non sono leghista. Di più: non ho mai votato Lega. Ma per ragioni di lavoro, nei tanti anni in cui ho lungamente battuto il marciapiede della professione giornalistica, ho seguito questo movimento molto da vicino. L’ho fatto con quell’istintiva curiosità che, come raccomandava Montanelli a noi, allora “garzoni di bottega”, è la prima dote che deve avere un giornalista. La seconda, aggiungeva inarcando il sopracciglio e guardando verso il basso, è quella di avere buoni piedi. Metteva soltanto come terza il saper scrivere, ma per lui era facile dirlo: troppo facile.
Dicevo che della Lega mi sono occupato fin dai suoi primi passi, e cioè dall’intuizione forse ruspante, ma comunque figlia del fiuto di quello straordinario “animale” politico che è stato Umberto Bossi. Ben prima, insomma, di vederlo imboccare quella sua malinconica deriva familistica, quasi democristiana. E posso giurare, anche di fronte ai suoi più acerrimi nemici di ieri e di oggi, che intervistare faccia a faccia il vecchio leone di Gemonio era per qualsiasi giornalista un’esperienza straordinaria, a condizione di reggere alle sbuffate di sigaro che, parlando e bofonchiando, lui ti “ruggiva” in faccia. Per fortuna ai tempi ero anch’io un toscano-addicted!
Era una Lega, quella degli inizi, dietro alla quale si aggiravano altri personaggi di spessore: dal professor Gianfranco Miglio, straordinario uomo di cultura, a Philippe Daverio, il geniale estro artistico che tutti conosciamo e apprezziamo. Senza dimenticare un economista irriverente, fuori dalle regole – e per questo con le palle – come Giancarlo Pagliarini. O anche semplicemente uomini per bene come Marco Formentini; uno che di certo non ha mai volato alto, ma che è stato un dignitoso sindaco di Milano.
Ho conosciuto però anche tanti amministratori locali, o semplici attivisti, specialmente in regioni “difficili” come l’Emilia Romagna. Era gente che veniva spesso da consolidate tradizioni familiari nel vecchio e ormai borghesizzato partitone delle Botteghe Oscure; e che di quella tradizione conservava la grande scuola dell’impegno quotidiano, anonimo, svolto a testa bassa, senza orari e con ammirevole ostinazione. Per la causa.
Salvo scadenti eccezioni, erano uomini dalle profonde radici popolari, nonché di libertà, che agitavano su tutte una bandiera: quella del Federalismo. Con il progetto di un Nord, come vagheggiavano Bossi e Miglio, che proprio grazie alla sua sognata indipendenza avrebbe aiutato il Sud a trovare una propria strada altrettanto autonoma, stimolandolo così a mandare dove si meritava un’infame classe politica locale.
Al di là di una facciata a volte anche folcloristica, come quella dei raduni “verdi” di Pontida, erano insomma uomini lontani mille miglia dall’intolleranza nei confronti di chi è diverso. L’espressione dialettale “terun” – lo dico con scienza e coscienza, da milanese ormai da una vita – non ha per esempio mai avuto una valenza razzista, ma semmai al massimo affettuosamente ironica. E non potrebbe essere altrimenti – Milano non è mai stata segregazionista – in una città che deve tutto, benessere incluso, al suo straordinario melting pot multi regionale. Senza melting pot Milano non sarebbe mai diventata Milano. E nemmeno lo sarebbe più.
Ora no, ora tutto è cambiato, nella Lega. Annuso rozzezza, ignoranza, e sento soltanto parole cattive, cariche di violenza meta-fisica e odio di “genere”; parole che a mio avviso hanno tradito quell’idea iniziale magari non condivisibile, ma senz’altro rispettabile. Vedo alleanze elettorali che sono certo oggi disgustino il Senatur; e imbarazzanti “compagni di strada” che staranno facendo rigirare il povero Miglio nella sua tomba. Mi riferisco al neonazismo dei picchiatori di Casa Pound; o a quel neofascismo borgataro, alla vaccinara, che scorre nel sangue di troppi esponenti di Fratelli d’Italia.
Per questo, al di là di come si concluderanno le consultazioni regionali di oggi – non sono un sprovveduto e so bene che Salvini raccoglierà moltissimi voti – mi auguro che almeno i sopravvissuti di quel nucleo storico e primigenio della Lega voltino le spalle e si rifiutino di votare questo ragazzotto che di certo stupido non è, ma che senza alcun dubbio è privo di una storia vera, di spessore. Uno, oltretutto, che pur non avendo mai fatto uno straccio di lavoro, oltre a quello della politica, ha anche la faccia di sparare a zero contro i professionisti della politica. Spara, insomma, contro se stesso.
Da friulo-ambrosiano e che proprio in quanto tale ama la ricchezza del melting pot milanese (e Milano) tanto quanto ama l’Italia – tutta intera, pur con le sue mille magagne – me lo auguro di cuore. Mentre da lombardo, quindi non chiamato questa volta alle urne, mi limiterò a guardare.
Ovviamente con curiosità, come raccomandava Montanelli.