L’Europa sta per affogare, travolta dalla marea antiausterity e dal rischio della bancarotta di Atene. Così si possono riassumere i titoli di testa dei principali quotidiani di oggi. In ogni caso, il successo eclatante di Podemos in Spagna ha riportato in auge una delle parole più usate a sproposito nell’ultimo decennio: populismo.
Il politologo inglese Paul Taggart lo ha definito “servitore di molti padroni”, perché “il populismo è stato uno strumento dei progressisti, dei reazionari, degli autocrati, della sinistra e della destra”. E gli attribuisce “un’essenziale capacità camaleontica, nel senso che acquisisce sempre il colore dell’ambiente in cui si manifesta” (“Il populismo”, Città aperta, 2002).
In altri termini, il populismo è “senz’anima”, cioè non dispone di una vera ideologia, intesa come un sistema di valori e di idee in grado di interpretare il passato, leggere il presente e proiettarsi sul futuro con una strategia d’azione ben definita. Per questo motivo, in fondo, non esiste un partito populista e il populismo non è un’ideologia. Al massimo è una “ideologia debole”, nelle cui manifestazioni storiche sono tuttavia ricorrenti alcuni elementi distintivi. Il primo elemento, il più evidente di tutti, è rappresentato dall’appello diretto al popolo, e dalla conseguente visione di un “governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo”, senza mediazioni istituzionali.
Yves Mény e Yves Surel, ad esempio, individuano tre accezioni di popolo, corrispondenti a tre tipi di populismo (“Populismo e democrazia”, il Mulino, 2001). Nella prima accezione, strettamente politica, il popolo è il “popolo sovrano”. In questo caso la polemica populista è rivolta contro il Parlamento e il sistema dei partiti, e alla democrazia rappresentativa si contrappone una non meglio precisata democrazia diretta. Nella seconda accezione, che Mény e Surel definiscono socioeconomica, il popolo è il “popolo-classe”. In questo caso, l’appello populista si rivolge non a tutti i cittadini, ma a specifici settori della popolazione che si sentono minacciati dalla globalizzazione: i piccoli artigiani, i commercianti, gli operai, i disoccupati. Quelli insomma che qualcuno ha definito, con una felice espressione, i “perdenti della modernità”. La terza accezione è quella culturale. In questo caso il popolo è il “popolonazione”, inteso come comunità di appartenenza. Si tratta di una visione – scrivono Mény e Surel – nella quale “il populismo è confuso con un tipo particolare di nazionalismo, che insiste sul carattere irriducibile ed eterno della comunità organica […]. Il popolo-nazione come unione ideale costruita dalla storia, dalla geografia e/o dal sangue”.
Strettamente connesso al popolo è poi il “nemico del popolo”. In realtà, i nemici sono diversi: le oligarchie economiche, i tecnocrati, i “plutocrati capitalisti”, gli immigrati, i rom, i diseredati di ogni colore, dove la creazione della “minaccia esterna” (accompagnata a volte dall’attacco xenofobo e razzista) serve anche da collante per un popolo privo di identità, o con un’identità costruita a tavolino (come nel caso del “popolo padano”).
Se il lettore ritiene utili queste classificazioni, scelga lui quali sono le categorie di “amici del popolo” che meglio si addicono ai Salvini, ai Grillo, ai Vendola, ai Civati e ai Landini domestici.