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Ucraina, ecco come funziona la maskirovka di Putin

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Con la conquista della Crimea, Mosca ha dimostrato che l’approccio asimmetrico e da “guerra dell’informazione” funziona anche all’interno di conflitti tradizionali, quelli tra Stati-Nazione.
Sedicimila soldati ucraini hanno perso la vita, lo ricordiamo, di fronte a soli diecimila uomini delle truppe d’assalto filorusse (o russe tout court).

Prima c’era stata la guerra Israele-Hezbollah del 2006, dove un attore non-statuale, ma collegato direttamente all’Iran sciita (gli Hezbollah, naturalmente) operava con strategie indirette e asimmetriche, oltre che in un confronto sanguinoso e indiretto, con lo Stato Ebraico.
“Costruzione del nemico”, sua trasformazione in feroce e irragionevole avversario, le vittime da mostrare a tutti i media internazionali, gli errori di tiro moltiplicati per dieci e cento, tutto venne messo in atto dal “Partito di Dio” sciita” per diffamare Israele, e oggi raccogliamo ancora i frutti amari di quelle operazioni informative di Hezbollah e dell’Iran, anche qui in Europa.

Oggi, quindi, la vittoria della Russia in Crimea dimostra definitivamente come le strategie asimmetriche possano impedire ad un avversario statuale di difendere i suoi interessi vitali tramite una serie di operazioni di guerra psicologica, di “information warfare” e di pressione attraverso le forze convenzionali, senza usarle pienamente, mentre le forze speciali prendono in potere mascherate da “partigiani” o da “patrioti”. La vecchia “maskirovka” sovietica, adattata ai tempi.
Intanto i nemici sono “fascisti” e “nazisti”, e “violenti”, mentre nascono le squadre di autodifesa, naturalmente dalla spontaneità popolare, per proteggere la popolazione dal vecchio nemico che ritorna.

La narrazione, tra vecchio e nuovo, tra mostri reali e antichi e nemici evanescenti di oggi, costruisce l’ideologia, che è un asset primario della “guerra dell’informazione” sia nella dottrina russa che in quelle di altri Paesi della Shangai Cooperation Organization.
L’ideologia è un romanzo popolare, ed ha gli stessi elementi: il buono che inizialmente soccombe al cattivo, una storia d’amore, e infine il Destino che si vendica del Cattivo portando il Buono, nel suo momento di maggiore debolezza, alla vittoria. “Issa”, “Isso” e O’malamente”, come nella “sceneggiata” napoletana.

Ma ritorniamo a noi: oggi, e soprattutto nel futuro, le guerre si faranno con mezzi politici, economici (e non con le semplici sanzioni, beninteso) umanitari, informativi, che sono dei veri e propri “moltiplicatori di forze” in riferimento alle componenti convenzionali e con un insieme di operazioni non-belliche che equalizzano le forze in campo.
Una denuncia formale all’Onu, mostrare, da parte di una Ong “amica” i “disastri umanitari” attribuibili al nemico, magari indirettamente, sostenere un partito politico all’estero, magari dentro il sistema rappresentativo del nemico, sostenere alcuni gruppi intellettuali di opposizione, diffamare la classe politica e soprattutto i propri più duri avversari (e su questo dovremmo pensarci bene, in Italia) creare una immagine positiva del proprio Paese ed adatta ai gusti delle masse dell’avversario. Ecco alcuni dei modi asimmetrici più comuni.

Si tratta poi di destabilizzare la popolazione del Paese-bersaglio. Mi viene in mente quando gli emissari di alcuni concorrenti europei si mettevano in contatto, e pagavano profumatamente, i “rivoluzionari” extraparlamentari di sinistra che destabilizzavano un importante gruppo industriale italiano.
Era una “strategia dell’Informazione” messa in atto da dei grandi privati, ma con le stesse tecniche degli Stati e, sospetto, con l’attivo sostegno dei loro Governi di riferimento.

Per dirla con la vecchia strategia francese del tridente nucleare autonomo di Beaufre e Ailleret, la “strategia asimmetrica” è una serie di operazioni “da debole a forte”, tale da dissuadere il nemico ad usare pienamente le sue forze e, quindi, conseguire una vittoria tattica o la clausewitziana “sottoposizione della volontà del nemico”.
Non mi risulta che di queste cose se ne parli spesso, all’interno dei cenacoli teorici delle Forze Armate italiane e della Nato.

L’Alleanza Atlantica spesso si pone questi problemi, soprattutto per quanto riguarda la Lettonia e l’Estonia, che vivono nel pericolo costante di un ritorno dei russi, ma oltre questa azione di carattere più giuridico che strategico non si va, per quel che mi risulta.
Non c’è quindi bisogno di far scattare l’art.5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, la difesa collettiva e integrata: una operazione nemica può operare fuori dai concetti tradizionali della movimentazione delle truppe convenzionali o della minaccia diretta di tipo missilistico o non-convenzionale.

Basta organizzare o finanziare un partito politico, creare, come accadde nel ’68, una tensione continua e insostenibile per i Governi, destabilizzare un Paese con n eccesso di immigrazione irregolare, inibire un grande affare o favorirlo, per condizionare le classi dirigenti non-politiche.
Tutto può essere guerra, e più è invisibile e maggiormente può durare, senza limiti di tempo, perché questa guerra a bassa intensità si alimenta, come avrebbe detto Napoleone, “da sola”, e si finanzia, spesso, con i capitali del Nemico.

Nella nuova dottrina russa, il conflitto asimmetrico non-militare mette insieme tecniche informatiche, informative, di ricatto morale tramite i mass-media, di guerra psicologica “classica”, di scontro ideologico tradizionale, diplomatico e economico, tali da creare un ambiente favorevole in massimo grado al conseguimento dei propri obiettivi.
E, è bene notarlo, senza muovere le truppe e mettendo in campo solo forze speciali mascherate da “patrioti” e da “partigiani” locali, quando si tratta di giungere alla stretta finale.
C’è ancora molta vecchia Urss in questi modelli post-moderni: i teorici di Mosca pensano alla destabilizzazione, a fomentare lo scontento nella popolazione, ponendo mente anche ad una politica dell’inganno, facendo uscire documenti e ordini falsi da attribuire al nemico.
E’ capitato in Ucraina per giungere all’annessione della Crimea, è capitato perfino nelle azioni in Serbia del 2000 e in altri scenari, può capitare altrove.

Sul piano strettamente militare, dopo che queste pratiche asimmetriche sono state messe in opera, vanno in azione le forze speciali, che accerchiano i punti di resistenza rimasti.
Si tratta di utilizzare tutte le tecniche della vecchia “strategia indiretta” per ridurre al minimo la presenza di forze convenzionali sul territorio, che vengono poi eliminate da piccoli gruppi di forze speciali. E’ l’invisibile che moltiplica l’effetto del visibile, la “forza che si usa” come la chiamava Henri Bergson in un suo discorso al Collége de France, viene dominata e diretta dalla “forza che non si usa”, quella invisibile e mentale-culturale.
Le prossime guerre saranno conflitti culturali e di modi di vita, che si scontreranno, nei limiti del possibile, senza utilizzare le armi convenzionali.
E’ la postura d’attacco, il modello più radicale della vecchia teoria del “soft power” USA.
Nel vecchio modello di Nye e Keohane, che risale al 1972, il potere “morbido” opera attraverso l’influenza a distanza, il consenso, la seduzione.
La creazione di un “mito” positivo contro il quale è impossibile andare, poiché incarna il Verum, il Iustum, il Pulchrum.

Nella versione russa attuale, il “soft power” di origine USA è invece l’insieme di tecniche che permettono il raggiungimento di un obiettivo di politica estera senza, semplicemente, ricorrere alle forze convenzionali o ad una azione militare che faccia scattare l’art.5 NATO o, comunque, una reazione militare efficace da parte dei nemici di Mosca.
Dalla seduzione alla “guerra non-convenzionale a bassa intensità”.
Il “Concetto di Politica Estera” della Federazione Russa, reso pubblico il 18 Febbraio 2013, è chiaro al riguardo: la dimensione informativa della politica estera di Mosca è primaria, e si compone di una gestione delle opinioni pubbliche degli altri Paesi, della tecniche informatiche e dei nuovi mezzi di comunicazione (i “social media”, per esempio) di azioni umanitarie, mentre i Paesi alleati della Russia intendono l’attacco informatico e le cyber operazioni come “tentativi di mettere a rischio la stabilità sociale, politica ed economica del Paese-bersaglio”.

Ovvero, non interessa molto ai teorici di Mosca (e a quelli cinesi) l’attacco informatico contro le infrastrutture, quanto l’azione cyber mirante alla insurrezione interna e alla sovversione politica. O alla destabilizzazione psicologica e istituzionale del rapporto tra Governo e Popolo.
Ma è l’intimidazione la radice di tutta questa dottrina. Si pensi alle manovre delle Forze Armate russe nel 2014, ai confini dell’Ucraina, con 150mila soldati russi in azione.
Qui, allora, non si tratta per i russi di utilizzare l’insieme delle tecniche di “sovversione di massa” pacifiche elaborate, con i suoi 198 punti, da Gene Sharp e dai suoi collaboratori dello “Albert Einstein Institute”, che riguardano l’azione non-violenta e la tecnica delle “rivoluzioni colorate”, come quelle patrocinate dagli USA in Georgia nel 2003, nella stessa Ucraina nel 2004 e in Serbia nel 2000.
Si tratta invece di utilizzare azioni guerra economica, legale, informativa sotto la minaccia reale e credibile di una azione convenzionale, che raggiunge i suoi obiettivi nei modi che abbiamo descritto sopra.

Quindi, senza l’uso evidente della forza non è possibile usare gli articoli 5 del “Charter” della Nato e 51 della Carta dell’Onu, mentre gli Usa sostengono, sul piano giuridico, che un cyberattacco è equivalente ad una azione convenzionale, e quindi è passibile di una risposta convenzionale. Ma è ancora una posizione isolata.
E’ difficile pensare, peraltro, che un cyberattacco sia un vero e proprio attacco armato secondo l’articolo 51 del Charter Onu, e quindi non sappiamo ancora, sul piano giuridico dello “jus ad bellum”, se un attacco informatico, che genera danni indiretti, sia equiparabile ad un attacco tradizionale che provoca danni diretti e indiretti, ovvero infrastrutturali.

Allora, anche sul piano teorico, non abbiamo, in ambito Nato, una dottrina della guerra “a bassa intensità” e nessuno, grazie alla dipendenza energetica europea, penserà mai ad una difesa convenzionale da un attacco da Est o nei confronti di un cyberattacco contro risorse e verso le infrastrutture.
Se fossimo più attenti ai processi di lungo periodo, quelli che permisero agli storici parigini delle “Annales” di rovesciare tanti luoghi comuni sul passato dell’Europa, forse dovremmo iniziare a pensare ad una dottrina Nato delle guerre a bassa intensità, da mettere in campo anche in aree in cui sono in pericolo gli interessi europei e atlantici: il Medio Oriente, l’Africa Settentrionale, le aree islamiche a rischio jihad.

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