Il primo numero 2015 della Rivista Energia riporta l’intervento di Rabah Arezki (FMI) e Olivier Blanchard (già chief economist del FMI) riguardo a sette questioni chiave legate al crollo dei prezzi del petrolio.
IL RUOLO DI DOMANDA E OFFERTA
Il drastico calo dei prezzi del greggio nel 2014, con le “quotazioni che sono crollate di quasi il 50% tra giugno e dicembre”, ha aperto un ampio dibattito sulle “dinamiche attuali e future del mercato del petrolio, le implicazioni per i diversi gruppi di Paesi e per la stabilità finanziaria”, nonché sulle “possibili risposte in termini di policy”. Il minor calo delle quotazioni dei metalli, solitamente più reattive di quelle petrolifere all’attività globale, suggerisce che “fattori specifici al mercato del petrolio abbiano avuto un ruolo di rilievo nel determinare il crollo dei prezzi”. Mentre si stima che “l’inattesa minor domanda abbia inciso solo per il 20-35% del calo dei prezzi”, dal lato dell’offerta emergono più fattori: dal “sorprendente incremento della produzione”, coadiuvata dalla ripresa libica e dalla tenuta irachena, al “cambio di strategia da parte dello swing producer”, ruolo storicamente assunto dall’Arabia Saudita. Quanto a lungo questa situazione si protrarrà dipenderà sostanzialmente dalla disponibilità del Regno saudita a “ridurre la produzione” sulla base di specifiche “considerazioni economiche e geopolitiche” e da “come gli investimenti reagiranno ai bassi prezzi” anche in riferimento ai prezzi di break-even ovvero alla “soglia di prezzo che rende profittevole l’estrazione”.
VANTAGGI PER CHI IMPORTA, PROBLEMI PER CHI ESPORTA
Il recente calo dei prezzi viene visto come “una buona notizia per l’economia globale”, dato che potrebbe apportare un “beneficio per il PIL mondiale di 0,3-0,7 punti percentuali nel 2015 rispetto a uno scenario senza caduta dei prezzi”. Tuttavia, il quadro è più complesso, dovendo tener conto degli “effetti asimmetrici sui diversi Paesi”. Infatti, il calo dei prezzi ha “importanti effetti redistributivi tra Paesi importatori ed esportatori”, con i primi considerati “i vincitori” e i secondi “i perdenti”, pur con importanti differenze al loro interno. “Sebbene non vi siano due Paesi che sperimenteranno il medesimo impatto del crollo dei prezzi”, alcuni tratti comuni sono individuabili. Tra i Paesi importatori di petrolio, specie tra le economie emergenti, i benefici riguardano “un maggior reddito per le famiglie, minori costi di produzione, un miglior posizionamento verso l’estero”. Per contro, i Paesi esportatori subiranno di più gli effetti negativi del calo dei prezzi, con “minori entrate ed una conseguente pressione sui loro budget e sulla bilancia estera”. Dal punto di vista della stabilità finanziaria, “i rischi sono aumentati”, specialmente per alcune imprese energetiche ed istituti bancari, sebbene “pressioni valutarie” abbiano interessato per ora solo alcuni Paesi esportatori, “come Russia, Nigeria, Venezuela”. Tuttavia, “date le elevate interconnessioni della finanzia globale”, tali sviluppi richiedono “un’accresciuta vigilanza”.
WHAT’S NEXT?
Le possibili risposte di policy possono variare tra Paesi importatori ed esportatori, eccezion fatta per la “comune opportunità di riformare sussidi e tasse sull’energia, con un minor costo politico”. Si parte dal presupposto che “questi non sono tempi normali”, dal momento che la “la maggior parte delle economie avanzate soffre di un considerevole output gap, di un’inflazione inferiore al target e di una politica monetaria convenzionale vincolata da tassi d’interesse vicini a zero”. In tale contesto, per i Paesi importatori è benvenuto “ogni aumento della domanda” mentre è “ritenuta più pericolosa una minor inflazione” dato che non potrebbe essere “compensata da minori tassi d’interesse”. Risulta cruciale quindi “l’adozione di indicazioni prospettiche per ancorare le aspettative inflazionistiche di medio termine ed evitare una deflazione sostenuta”. Per i Paesi esportatori, il calo dei prezzi alimenta pressioni per “ridurre la spesa governativa” date le “minori entrate fiscali e il rischio che i prezzi restino bassi per un tempo indefinito”, pur con le differenze e le specificità nazionali. Mentre “i Paesi che hanno accumulato abbondanti risorse finanziarie quando i prezzi erano elevati, possono permettersi un maggior deficit fiscale attingendo temporaneamente da queste riserve”, per quelli invece “privi di tale margine di manovra fiscale”, l’aggiustamento sarà più ostico, necessitando di “un maggior deprezzamento reale e di un quadro monetario più solido per evitare che il deprezzamento porti ad una più elevata, prolungata inflazione e ad un’ulteriore svalutazione”.
(L’articolo integrale è stato pubblicato nel numero 1.2015 della Rivista Energia nell’ambito di un pacchetto di analisi dedicate al mondo del petrolio e che comprende i contributi di Edward L. Morse (Citigroup), Alberto Clò (Rivista Energia), Enzo Di Giulio (Scuola Mattei-Eni Corporate University), Sergio De Nardis (Nomisma). Per una maggiore completezza dei contenuti e accuratezza dei dati si rimanda alla versione originale; ogni eventuale discrepanza è da attribuirsi alla Redazione della Rivista Energia)