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Idee per investimenti azzeccati nelle infrastrutture (non solo Piano Juncker)

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Se nel campo delle infrastrutture l’intervento di investitori privati si realizza tramite operazioni di project financing (“PF”), un primo punto che merita attenzione è quello del cosiddetto investitore-promotore. Ogni manuale di finanza infatti evidenzia come tale strumento funzioni solo in presenza di promotori puri, ovvero investitori in equity che non hanno anche altri ruoli nella catena del valore, come banche, costruttori, utilities, che presentano fisiologicamente conflitti di interesse. E’ stato sempre questo l’anello mancante per un decollo effettivo del PF e del PPP in molti paesi europei, tra i quali l’Italia.

Ebbene, in paesi come il Canada e l’Australia proprio i fondi pensione – o società di scopo da questi istituite – operano in veste di promotori.
L’assenza nel vecchio continente di tale categoria di investitore, distinto dai tradizionali fondi comuni di investimento che hanno natura più finanziaria e cartolare, aiuta a spiegare un apparente paradosso: la scarsità dei progetti. Tutti gli organismi finanziari internazionali e sovranazionali denunciano da tempo la difficoltà di impiegare risorse, anche private, stanziate per investimenti in infrastrutture. I fondi dedicati a progetti c.d. “greenfield” in Europa investono percentuali irrisorie delle loro disponibilità. Ma la “scarsità di progetti” non si concilia con “l’ampiezza dei bisogni” e quindi trova necessariamente spiegazione nella presenza di “colli di bottiglia” che impediscono alla liquidità – anche quando resa disponibile – di confluire verso gli investimenti obiettivo.

Bisogna dunque lavorare su tradizionali tabù di tipo culturale ai quali ci siamo ormai assuefatti. Primo tra tutti la tradizionale separazione tra proprietà delle risorse – che appartengono agli investitori – e gestione del risparmio – che in un sistema bancocentrico è in larga misura affidato alle banche o società di loro emanazione. Una separazione che non funziona nel campo degli investimenti in equity per le infrastrutture, dove peraltro i conflitti di interesse degli istituti di credito possono essere particolarmente accentuati.

L’istituzione di investitori-promotori da parte di fondi pensione, casse di previdenza e assicurazioni appare, alla luce dell’esempio canadese e australiano, una soluzione efficace e perfettamente legittima che non impedisce l’applicazione di tutti quei sani principi di regolamentazione e vigilanza previsti oggi in materia di risparmio gestito. Peraltro a beneficio indiretto anche del sistema bancario e dei gestori del risparmio i quali potrebbero sviluppare maggiormente la loro naturale e tipica attività anche nel comparto delle infrastrutture.

Da queste considerazioni nasce il progetto Arpinge, che nel tentativo di colmare un “vuoto” del mercato ha inteso ispirarsi proprio agli esempi di successo presenti in Paesi come Canada e Australia. Senza aspettare incentivi e facilitazioni dall’alto, le tre casse di previdenza delle professioni tecniche – CIPAG, EPPI e Inarcassa, che rappresentano Architetti, Ingegneri, Geometri e Periti Industriali – hanno costituito una società di investimento in infrastrutture di diritto italiano, privata ma istituzionale, che opera come promotore con vocazione alla finanza di progetto e al cantiere, aderendo spontaneamente al robusto bagaglio di “best practices” adottate da quei fondi pensione internazionali che agiscono tramite veicoli propri caratterizzati da requisiti di professionalità, onorabilità e trasparenza del management.

Chiediamoci: in assenza di investitori nazionali di questo tipo, si potrebbe pensare di risolvere la questione semplicemente favorendo l’ingresso nel nostro Paese di operatori esteri?
L’esperienza insegna che nel campo delle infrastrutture questa soluzione non funziona. In tale ambito il rapporto con i territori è troppo stretto e condiziona la reale capacità di incidere nella gestione. Esempi di “fallimento” di investitori esteri anche molto autorevoli non mancano.

Nel campo delle infrastrutture vige infatti, più che in ogni altro settore, il principio del “watch dog”, ovvero del co-investitore locale che assicura la conoscenza del Paese di destinazione degli investimenti ed i rapporti locali in un ambito così strategico e “intimo” come il territorio. Insomma, per attrarre capitali esteri, il Destinazione Italia va scritto essenzialmente e prima di tutto per gli investitori nazionali!

In tale prospettiva, quali possono essere gli altri strumenti utili allo scopo? In termini sintetici le regole di investimento previste per fondi pensione, casse di previdenza e assicurazioni; la leva fiscale; le garanzie; il credito agevolato, soprattutto per le infrastrutture sociali e culturali, e il rilancio di banche con cultura di credito a medio lungo termine, come un tempo erano IMI e Mediocredito Centrale (“MCC”).

Sul primo punto, va segnalato che la normativa europea in materia di investimenti ha sviluppato negli ultimi anni una vera e propria ossessione per gli impieghi di risparmio in economia reale che ha di fatto ridotto questa componente nel portafoglio degli investitori ampliando a dismisura lo spazio per la crescente montagna di finanza cartolare. Il recente regolamento sugli investimenti delle casse di previdenza prosegue su questa strada. Comprensibile in un Paese nel quale ancora nel 2014 le banche hanno fatto i bilanci con la gestione del risparmio.

Meno se si guarda allo stato generale dell’economia, ai bisogni di costruire i futuri trattamenti previdenziali e ai rischi non meno elevati di tenere il risparmio previdenziale su impieghi cartolari di breve termine.

Altro tema rilevante è quello del fisco. Creare un sistema fiscale capace di “premiare” l’investimento in infrastrutture non priva lo Stato di risorse ma contribuisce a crearne. Il MEF sta lavorando ad uno specifico provvedimento indirizzato agli investitori istituzionali. Bisogna evitare che la scelta dei settori sia limitata a quelli delle grandi opere e dei grandi operatori pubblici e privati. Maggiore attenzione a settori più “granulari”, come ad esempio i parcheggi o le infrastrutture sociali e culturali, quali scuole, RSA e Campus universitari, potrebbe essere decisamente utile ed efficace.

Senza lasciare fuori società di investimento diverse dagli archetipi delle SGR e dei fondi comuni di investimento di tradizionale matrice bancaria.
In materia di garanzie è forse arrivato il momento di ricondurre ad unità un ambito che si è nel tempo frammentato e variegato perdendo di chiarezza ed efficacia. Associando a tale strumento al recupero del credito agevolato in sostituzione delle risorse a fondo perduto, che sono in via di estinzione. Credito agevolato soprattutto in forma rotativa e specificamente dedicato alle infrastrutture di piccola e media dimensione diffuse sul territorio con destinazione sociale e culturale. Siamo in attesa di conoscere i criteri della BEI in materia di misurazione dell’impatto sociale degli investimenti. Potrebbero essere un primo riferimento per compiere scelte più efficaci ed armoniose rispetto al passato.

Infine, dopo la riscoperta della politica industriale come capacità di indirizzo – e non di gestione – da parte del pubblico, è arrivato anche il momento di riscoprire una vera politica del credito, rivitalizzando istituti specializzati nel medio-lungo termine. In ossequio, peraltro, alla distinzione tra breve e lungo termine che di fatto Basilea III ha reintrodotto.

In tale prospettiva andrebbe fatta una lettura attenta in merito al riassetto del sistema bancario di fatto in corso, tenendo in debito conto la valorizzazione opportuna di ciò che resta e potrebbe costituire la base per una banca di sviluppo: il Mediocredito Centrale.

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