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Tutte le sfide che attendono l’Italia e l’Ue

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Non vi sono indicatori positivi, nel futuro del nostro Paese. Anche sul piano del debito pubblico, che si ritiene ormai stabilizzato da una crescita economica flebile ma certa, niente è come sembra. Quelli della London School of Economics lo hanno scritto pochi giorni fa: l’Italia, lo sappiamo, ha il terzo debito pubblico nel mondo, per dimensioni, e il secondo nell’Eurozona dopo quello greco, con il più rilevante rapporto debito/Pil del gruppo del G7.
Fin qui, tutte cose che sappiamo già, e che scommettiamo non saranno modificate, in peggio, per un futuro prevedibile. Ma chi l’ha detto? È vero infatti che il Giappone ha un debito pubblico grande più o meno il doppio di quello italiano, ma Tokyo spende meno dell’un per cento del suo Pil per il servizio del suo debito pubblico, mentre noi siamo oggi al 5,4% del Pil solo per pagare gli interessi sul nostro debito sovrano.
L’equazione che definisce la sostenibilità del debito, elaborata da Olivier Blanchard, l’ex-dirigente del Fondo Monetario, è questa, e permettetemi di fare per un momento il professore.

Senza annoiarvi con la matematica, essa ci dice che il cambiamento del rapporto debito-Pil è la somma di due dati: Il primo è la differenza tra i tassi di interesse reali e il tasso di crescita, moltiplicato per il debito. Se quindi l’interesse reale è maggiore della crescita, il debito aumenta. Il secondo risultato riguarda l’avanzo primario. Se la spesa pubblica aumenta, il livello del debito aumenta. Sono cose che sanno tutti, in effetti, ma l’equazione di Blanchard ci permette di collegare dati certi e “certe dimostrazioni”, come avrebbe detto Galileo.
In questa fase, il tasso di interesse reale, e sto usando una fonte Nomisma, è in Italia del -0,2%, il peggiore dell’Eurozona, e con una inflazione attesa dello 0,4. Il saldo primario va bene, ma anche quello tedesco va bene. Ed è un concorrente globale, la Germania.

Quindi, la nostra salvezza, economica e politica, è connessa ad un miglioramento radicale e rapidissimo dell’efficienza della spesa pubblica, ad un effetto-crescita della suddetta spesa dello Stato, infine alla stabilizzazione dei tassi di interesse globali e, soprattutto, nell’Eurozona.
Nulla di questo è certo anzi, se parliamo di efficienza della spesa pubblica, tutto diventa più difficile.
La spesa pubblica corrente ha resistito imperterrita a ben cinque governi e trentatré “spending review”, il tutto per un totale di 1174 pagine. Dal 2007 ad oggi la spesa primaria è salita di 107,2 miliardi di euro, con un incremento del 18,1% in sette anni.

La spesa per investimenti è, di converso, calata di 9,2 miliardi, con una diminuzione di oltre il 20%. Altro che spesa produttiva!
Nella fase di maggiore aumento della pressione fiscale, poi, il Pil è sceso del 8,2% rispetto al 2006. Oggi, per concludere questo tema, la Germania taglia la spesa pubblica dell’1% del Pil; ma l’Italia aumenta la stessa partita di bilancio dell’1,5%.
A parte le percentuali e i numeri, il fenomeno è ben chiaro: se aumenta la volatilità elettorale, aumenta anche la tendenza dei partiti al governo a spendere per mantenere e proteggere il proprio elettorato, che viene, sia pure legalmente, “comprato” dai Governi. Ma questa è la ricetta per il baratro.

Era meglio Achille Lauro, che distribuiva scarpe scompagnate e pacchi di pasta, lui almeno ci metteva la faccia e lo faceva con i suoi soldi. Se infatti avessimo seguito le tendenze della media dell’area Euro, oggi spenderemmo, rebus sic stantibus, 23 miliardi di Euro in meno. Contano e si vedono. L’invalidità civile, per esempio, è aumentata nel numero dei percettori, tra il 2003 e il 2013, del +51,7%. Saranno tutti meritevoli di questo trattamento? Me lo auguro per loro. Un invalido civile ogni 21 abitanti, neonati e bambini compresi.
Ricordiamo anche che la Guardia di Finanza ha identificato sprechi nella Pubblica amministrazione per almeno 2,6 miliardi di euro. I debiti della Pubblica amministrazione, poi, sono ancora di circa 70 miliardi, malgrado i recenti miglioramenti nella tempistica, sempre da era geologica, dei saldi alle imprese che lavorano con la Pa.

E allora senza una trasformazione radicale della situazione, lo dicono tutti i centri di ricerca più importanti, l’uscita dall’Euro dell’Italia è uno “scenario possibile”.
Ma c’è di più. La crisi europea ha, di fatto, rinazionalizzato le politiche estere. Ovvio: la politica estera è la cartina di tornasole dei Paesi Ue, tutti “export-driven”. E non c’è da stupirsi: l’Ue e l’area Euro sono il contesto strategico dove si riuniscono Paesi che tendono a farsi concorrenza tra di loro, proprio per le loro affinità economiche e politiche strutturali.
E qui, sulla questione della nostra politica estera, vi è oggi il punto di caduta del nostro Paese. La questione dei due marò detenuti in India è ormai tragicamente farsesca, se mi si consente un ossimoro.
L’obiettivo strategico (e l’India, inizialmente, lo ricordiamo, aveva prodotto una perizia che di fatto scagionava i due militari del glorioso e a me carissimo San Marco) non è quello di stabilire la verità in un processo che sarà in ogni caso farlocco.

Il punto è, per l’India, di far fuori l’Italia dal quadrante geoeconomico dei suoi due oceani e di operare una “defamation”, che serve sempre per eliminare un concorrente. Il resto sono cincischi avvocateschi, che nessuno prende davvero sul serio. Tranne noi.
Ci vorrebbe però poco a sapere che il governo del Kerala è legato al business internazionale della pesca; e che in questo mercato la quota di attività illegale è tale da deformare tutto il processo politico.
Ci vorrebbe ugualmente poco a sapere, poi, che le aree di pesca davanti alle coste del Kerala sono infestate da navigli esteri che pescano illegalmente, e certamente una operazione antipirateria su una nave come la Enrica Lexie, che non ha niente a che fare con quegli affari, dà molto fastidio. L’industria della pesca illegale vale oggi almeno 9 miliardi di dollari l’anno. E vi è un rapporto inverso tra diminuzione della pirateria e aumento della pesca illegale, nel Corno d’Africa e in Kerala. Basterebbe studiare un po’ di più.

Se il caso dei due marò fosse successo agli inglesi, avrebbero mandato un nucleo del Sas a fare qualche “dispetto” al governo keralino. Non importa quale, basta dare il segnale che ad uno schiaffo si risponde, se si è un Paese serio e vero, con un ceffone uguale e contrario, come nella fisica newtoniana.
Queste cose si fanno, naturalmente, ma non si dicono, per citare il titolo di una vecchia canzone cantata da una antica amante del Re Umberto II.
Ma il Kerala avrebbe capito, eccome. E ci avrebbe rispettato.
Inoltre, sarebbero stati, in un Paese serio, congelati tutti i beni e i conti dei cittadini indiani provenienti dal Kerala e operanti in Gran Bretagna. Cosa che avremmo dovuto fare noi, che invece adoriamo lo straniero, con mentalità un po’ da camerieri, come se fosse un piccolo dio. Un dio delle piccole cose, per citare il titolo del bel romanzo di Arundhati Roy, scrittrice che viene peraltro dall’India nordoccidentale.

L’idea che l’uso ragionevole della forza debba essere espunto dalla politica estera è una cosa inimmaginabile e terribilmente ingenua, nel mondo contemporaneo.
L’uso della forza è spesso necessario e, diversamente da quello che dichiara la autorità Pesc attuale, risolutivo. La violenza è un “cosiddetto male”, come scriveva l’etologo Konrad Lorenz. Va modulato, reso efficace, finalizzato al vero obiettivo, coperto da effetti politici e strategici negativi. Ma, nondimeno, né la rivoluzione né la politica estera sono, parafrasando Lenin, “un pranzo di gala”.
Poi la questione della Libia è ormai tragica. Mentre scrivo arriva la notizia di un attentato contro Abdullah al-Thinni, il leader del governo libico di Tobruk.

Ci sono state dichiarazioni ufficiali della Ue in cui si supponeva invece che si dovesse arrivare ad un “governo di coalizione” con tutte le parti in causa dentro. Il leone e l’agnello dormiranno insieme, ma l’agnello dormirà ben poco, avrebbe detto Woody Allen parafrasando la Bibbia.
Mi immagino il possibile “ministro” dell’Isis di Derna, magari proprio quello che ha appena sgozzato 21 cristiani copti e 30 migranti eritrei su una spiaggia vicino Tripoli.

Il “ministro della cultura” potrebbe essere magari, in un governo di coalizione libico, il capo della Fondazione Al-Rayyah, che ha appena fatto uscire un giornale in cui si sostiene che la ummah universale nasce da quella libica.
Per non parlare del fatto che i ministri degli Esteri non vanno mai a dire, nemmeno se interrogati, che manderanno gli incursori del Goi sulle coste tunisine e libiche, per “distruggere i barconi”. Un corpo di militari straordinari che sono obbligati a tacere cosa sono, come si chiamano e dove operano, squadernato in questo modo da un ministro della Repubblica. Non si tratta quindi di “forare il pallone” o distruggere i “barconi” a dei ragazzini che disturbano sulla spiaggia, se li possono ricomprare in ogni momento. Il vero problema è che lo “youth bulge” africano e mediorientale, aggravato dalle guerre locali, sarà tale da deformare tutta la demografia mondiale. Nell’area subsahariana, per esempio, la crescita delle fasce più giovani della popolazione locale sarà, tra il 2015 e il 2030, di 5,2 milioni di giovani per anno.

Dove li mettiamo, mentre i lavori a basso livello di produttività sono già migrati, all’inizio della globalizzazione, dall’Occidente in Asia, e lì staranno per molto tempo?
Altro che bucare i gommoni, qui si tratta di pensare a investimenti, soprattutto in agricoltura e nell’allevamento animale, che facciano restare milioni e milioni di “nuovi” giovani in Africa, altrimenti tutto il nostro welfare e la nostra formula produttiva deflagheranno.
Ecco, la nostra classe politica sembra attardata sul mito della “comunicazione” ma, come sanno bene proprio gli “spin doctor” nordamericani e inglesi, pagati profumatamente dai nostri politici, se il politico non è bravo per conto proprio non è possibile trasformarlo. Non c’è “comunicazione” che lo salvi.

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