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La Liberia è Ebola-free (nuove ansie e visioni future)

Perugia. Sabato 9 maggio, la Liberia ha orgogliosamente annunciato di aver sconfitto il virus Ebola (o meglio, di non aver registrato nuovi casi negli ultimi 42 giorni). Ci sono nuovi malati in Guinea e in Sierra Leone ma sono molto pochi, e la notizia che la Liberia è fuori dalla pandemia è molto importante, perché è stato il Paese più colpito: oltre 4 mila morti sugli 11 mila totali sono liberiani.

Tutto mentre torna un po’ di allarmismo in Italia (limitato, visto che la cosa non fa più troppa notizia): un infermiere sardo che ha prestato servizio in Sierra Leone tra febbraio e maggio di quest’anno, è infatti stato ricoverato al reparto di Malattie infettive di Sassari, per sintomi compatibili con ebola, ma ancora sono in corso gli accertamenti.

Due giorni fa il New York Times ha pubblicato un articolo che racconta del medico Ian Crozier, ammalatosi in Sierra Leone, guarito in America, a cui hanno scoperto la permanenza dei lunghi filamenti attorcigliati tipici di Ebola (virus della famiglia delle filoviridae) nel corpo, esattamente in un occhio, che lo stavano rendendo cieco (e forse pure sordo) ─ piano con la paranoia, però, perché la possibilità che il virus restasse annidato nell’organismo umano mesi dopo la guarigione effettiva, non è una novità. A Crozier è stato somministrato un farmaco sperimentale (il nome non è stato rivelato) che lo ha guarito completamente: nonostante si pensa che la guarigione sia stata indotta dagli anticorpi del medico e che il nuovo farmaco abbia solo rallentato un’ulteriore diffusione del virus, l’equipe e Crozier sono ripartiti per la Liberia per somministrarlo a casi analoghi ai suoi, che sono piuttosto diffusi.

Nonostante il virus sia universalmente riconosciuto come uno dei più pericolosi per la salute globale, per un intervento massiccio dei Paesi più sviluppati, si era dovuto attendere diverso tempo ─ tempo che finì per lasciare spazio al dilagare del contagio. In più, le delicate situazioni sociali nei luoghi colpiti, avevano creato il presupposto per la reazione restia della popolazione del posto: la diffusione di leggende metropolitane sui bianchi che erano i portatori della malattia, le credenze locali sul culto del corpo, hanno insegnato agli operatori medici a bilanciare la loro necessità di intervento con le usanze e le tradizioni che si trovavano davanti. D’altronde, immaginate di vivere in un villaggio tribale liberiano, e vedervi piombare un giorno jeep bianche da cui scendono uomini in tuta hazmat accompagnati da guardie armate, che vi dicono che vi porteranno via un parente o un amico malato e somministreranno a tutti dei medicinali. La paura è il minimo. Non è un caso, infatti, se la nazione che ha reagito meglio e che è riuscito a bloccare subito l’epidemia, è stata la Nigeria, dove esiste una struttura medica stabile, dove la modernità (per dirla con un termine forse improprio, ma che rende bene l’idea) è più diffusa e dove si è raggiunta da tempo una seppur debole stabilità.

La guerra, l’ignoranza, la povertà e la scarsa igiene che ne consegue, sono parametri centrali nella diffusione di una malattia virale: per questo, secondo vari analisti, occorre tener conto preventivamente di altre zone che vivono condizioni analoghe a quelle africane ─ per certi aspetti, è la più importante lezione lasciata da questa epidemia, con tutte le ovvie difficoltà. Per esempio, è noto che in alcune aree siriane tenute sotto la presa dello Stato islamico, si sta diffondendo la leishmaniosi, così come in aree povere della Penisola Araba si sono registrati da tempo casi del coronavirus che produce la MERS ─ e la guerra in Yemen, potrebbe peggiorare la situazione.

Ellen Watson-Stryker, un esperto di promozione della salute di Medici senza frontiere, ha spiegato a Wired US, che l’unico modo per far fronte bene e rapidamente a un focolaio virale importante come quello di Ebola dello scorso anno, è mantenere un sistema sanitario funzionante ─ e la diffusione delle strutture mediche, potrebbe anche abituare le popolazioni locali e allontanarle dalle superstizioni. Il problema ─ ovvio ─ è che certe malattie spesso nascono in aree di conflitto (o che hanno subito da poco i danni dei conflitti), luoghi dove l’assistenza sanitaria è traballante se non assente. Secondo esperti come Peter Hotez, preside della Scuola Nazionale di Medicina Tropicale al Baylor College di Houston, il rischio però è che malattie come Ebola in posti del mondo del genere, possano diventare endemiche, qualcosa di stagionale, come l’influenza in Italia.

Lo Stato islamico cerca di apparire ancora una volta in controtendenza: contrariamente a quanto siamo abituati a vedere nelle aree di conflitto, i servizi di propaganda media del Califfato, hanno diffuso poco tempo fa delle immagini molto curate con cui promuovevano al mondo quello che qualcuno ha soprannominato “Jihadicare” (parafrasando il sistema assistenziale americano “Obamacare”), una sorta di servizio sanitario nazionale dell’IS che prende il nome di ISHS ─ il logo è molto simile a quello inglese, che invece si chiama NHS. Anche se sull’effettiva funzionalità del servizio, non ci sono notizie indipendenti.

@danemblog

(Foto: Marcus Di Poala / Nurphoto / Sipa USA)

 

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