Formalmente è terminata a dicembre, ma Washington e i suoi alleati hanno da subito compreso che non sarebbe stato troppo semplice abbandonare la missione in Afghanistan, ancora troppo instabile e insicuro.
Che il Paese non sia ancora in grado di camminare con le proprie gambe lo dimostrano gli ultimi avvenimenti. Due giorni fa, un talebano armato di kalashnikov e pistola, ucciso dalla polizia prima che azionasse la sua cintura esplosiva, ha attaccato la Guest House Park Plaza, un residence frequentato da stranieri a Kabul, ammazzando quattordici persone, nove delle quali straniere. Tra queste anche un italiano, il quarantottenne cooperante bergamasco Alessandro Abati, ucciso insieme alla fidanzata di origine kazaka.
Così i ministri degli Esteri dei 28 Paesi dell’Alleanza atlantica, riuniti ieri in Turchia, hanno deciso di prolungare la presenza del contingente Nato nel Paese anche oltre il 2016.
LE RICHIESTE DI KABUL
“Di fronte al rafforzamento dell’attività e dell’efficacia dell’azione talebana – scriveva a marzo il Centro Studi Internazionale diretto da Andrea Margelletti -, l’evidente degenerazione dello stato di sicurezza interno aveva già spinto, nei mesi passati, il presidente afghano, Ashraf Ghani, a chiedere agli Stati Uniti di prolungare la presenza delle proprie Forze armate nel Paese. Benché, fino ad ora l’amministrazione Obama abbia sempre prospettato il 2016 come anno per un completo ritiro dei propri contingenti, i dubbi sull’effettiva capacità delle Afghan National Security Forces (Ansf) nel rispondere alla minaccia dell’insorgenza potrebbe ora spingere Washington a prorogare di almeno due anni il ritiro delle 10800 unità ancora impegnate sul territorio“. Una conferma in questa direzione, proseguirono gli analisti, era giunta anche dal nuovo segretario alla Difesa americano Ashton Carter, che recatosi in visita a Kabul lo scorso 21 febbraio, aveva espresso la disponibilità di Barack Obama a riesaminare i propri piani di ripiegamento “per continuare a garantire il proprio supporto per la sicurezza del Paese“.
RITORNO AL PASSATO?
Oggi quella prospettiva è diventata realtà e apre anche a nuovi scenari politici. Secondo il New York Times, la drammatica situazione del Paese dipenderebbe per gli esperti anche dalla crescente instabilità del governo di Ghani. Per questo, molti guarderebbero con favore a un possibile ritorno di Hamid Karzai, interlocutore non sempre “facile”, ma forse più capace di governare una nazione così complessa, raggiunta anche dai fermenti jihadisti dei drappi neri dell’Isis.
L’ACCORDO COL PAKISTAN
Proprio la crescita del terrorismo è una delle molle che ha portato Afghanistan e Pakistan, vicini dai rapporti finora non proprio cordiali, a cercare nuove intese. Mercoledì il presidente afghano Ghani e il primo ministro pachistano Nawaz Sharif – racconta Defense News – hanno affermato a Kabul la loro volontà di combattere insieme il jihadismo, confermando il riavvicinamento diplomatico tra i due Paesi. “Questa non è solamente una guerra per noi, il terrorismo regionale e internazionale ce l’hanno imposta”, ha dichiarato Ghani al termine del suo incontro con Sharif, mentre la “stagione dei combattimenti” tra Kabul e i ribelli talebani infuria in Afghanistan. Il Paese che soffre di più questa situazione è il Pakistan. Insieme, Afghanistan e Pakistan dovrebbero condurre questa guerra”, ha aggiunto in occasione della prima visita del premier pachistano a Kabul dall’investitura di Ghani lo scorso settembre. Da parte sua Sharif, che deve a sua volta fronteggiare una sanguinosa rivolta talebana, ha garantito che i nemici dell’Afghanistan non possono essere amici del Pakistan. “Saranno pianificate azioni coordinate e condotte reciprocamente per colpire i covi dei terroristi lungo la frontiera”, ha promesso Sharif, accompagnato in questa visita dal capo delle Forze armate pachistane, il generale Raheel Sharif.