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Perché s’ha da fare una nuova riforma pensionistica

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema della previdenza aveva perduto gran parte dell’attenzione dell’opinione pubblica e del governo. Improvvisamente tutto è cambiato con la sentenza della Consulta, che ha compromesso i precari equilibri del bilancio pubblico e costretto il governo a reperire più di 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) non solo per corrispondere quanto non versato, ma per impedire un rialzo della curva di proiezione della spesa pensionistica/PIL nei prossimi decenni. Non si tratta quindi di racimolare fondi qua e là, ma di rimettere nuovamente mano al sistema con nuovi tagli, se non si vuole aumentare il peso del fisco.

Ancora una volta il Paese ha dato prova di miopia, non riuscendo a vedere che le riforme fatte erano insufficienti e in alcuni casi inique. A tranquillizzare gli animi erano intervenute le proiezioni della Ragioneria Generale, confermate nel DEF 2015. Queste previsioni di sostenibilità del sistema, tuttavia, non bastano a tranquillizzare, perché vi sono altre considerazioni ben più importanti, che avrebbero dovuto forzare i governanti a intervenire tempestivamente.

In primo luogo, le proiezioni della RGS valgono soltanto nel caso di regole stabili nel tempo. Il sistema tuttavia non è stabile, perché sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che hanno come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione al più presto a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!

Altri motivi sono la grave incidenza della spesa pensionistica sulla capacità di crescita economica, le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali, il disincentivare la previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.

Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e ancor più a quella delle economie più dinamiche dell’area OCSE. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Il prelievo inoltre grava per 23,8 % sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire. Appare altresì sproporzionato che questa spesa, anche senza il recente aggravio, assorba già il 34% della spesa pubblica primaria nel 2015, arrivando al 35,6% nel 2019.

Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori attuali. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere: ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040, ma su compensi già relativamente bassi. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza. L’iniquità è anche intragenerazionale: tra i pensionati attuali sussiste un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra contributi versati e i redditi da pensione durante la vita residua.

Su questo sfondo è evidente che il governo deve intervenire per ridurre nel contempo i trattamenti a tutti i pensionati e i prelievi su lavoro ed impresa, per lasciare più risorse per investimenti, salari e nuove generazioni. In questa azione è iniquo perequare tagliando solo le pensioni medio alte, in quanto la pensione è reddito differito sottratto al lavoratore per previdenza. La redistribuzione fatta con le risorse pensionistiche e non con le imposte è la negazione del principio di previdenza. Il Governo dovrebbe invece tagliare le pensioni a quanti hanno contribuito poco e ricevono molto, basandosi su questo divario e tutelando solo le pensioni sociali.

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