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Elezioni, ci saranno ancora le regioni rosse?

Lodovico Festa – I due discussori da noi scelti sul tema «quanto siano attuali, in positivo o in negativo, esperienze e realtà delle cosiddette Regioni rosse» divergono – come previsto e in qualche modo auspicato – sul punto centrale: Raffaella Della Bianca, pur riconoscendo risultati sociali ed economici a grandi regioni come Emilia Romagna o Toscana, ritiene che il loro modello sia stato caratterizzato da una logica, alla fine, di chiusura che ha contribuito al fallimento – in generale – della stessa istituzione regionale; ciò è avvenuto anche perché tale «logica» è stata esportata (e peggiorata) in altre parti d’Italia – e la Della Bianca si concentra sul caso Liguria – completando la crisi di una forma di articolazione dello Stato comunque segnata da contraddizioni emerse nel tempo. Adesso, dunque, sarebbe il momento di un ripensamento radicale. Chiti, dal canto suo, pur riflettendo sui limiti dell’azione di governi – anche di sinistra – nei confronti delle Regioni (come la modifica della Costituzione nel 2001), e su come la crisi istituzionale ed economica dell’Italia richieda trasformazioni profonde (anche di ordinamenti definiti dalla Costituzione, tra cui quelli territoriali in discussione), sostiene, invece, che dalle Regioni rosse si debba ripartire perché proprio certe esperienze economico-sociali di inveramento dei principi della Costituzione (dall’ambiente al diritto allo studio, dalla parità delle donne all’assistenza ai bisognosi) offrono una base adeguata per modificare, senza stravolgere la Carta fondamentale del nostro Stato, uno strumento di profonda democrazia e civiltà; su questa strada, inoltre, secondo Chiti, sarà possibile guarire i mali più gravi della nostra società e della nostra economia.

Giulio Sapelli – Non vorrei allargarmi troppo rispetto al ruolo di introduttore: abbiamo chiesto i pareri di due persone di qualità ed è bene che a loro resti il centro della scena. Vorrei solo affiancare, all’analisi istituzionale e amministrativa che si legge nell’impostazione trasmessaci dai due nostri autori, una riflessione laterale che ritengo utile. Una certa crisi delle Regioni rosse, frettolosamente riassumibile col richiamo delle recenti elezioni dell’Emilia Romagna, dove si è passati da area italiana con le più alte percentuali di voto a un terribile 36 per cento di partecipazione, a mio avviso è stata prodotta non solo da
problemi istituzionali o socio-economici ma dalla crisi antropologica di una cultura politica: quella comunista. Come da tempo scrivo, al fondo del comunismo c’era una fede, un orizzonte in cui i fedeli esprimevano fedeltà nei confronti di una teodicea, cioè di una filosofia della salvezza in senso assoluto (si pensi all’inevitabilità e alla giustezza del socialismo), «perinde ac cadaver», pronti a morire: questa fede ha consentito di produrre un ceto politico caratterizzato da enorme dedizione di cui si coglievano i segni pure nell’azione amministrativa. A mio avviso, sbaglia chi considera i comunisti italiani socialdemocratici mascherati restii a rivelarsi per tali: in realtà erano persone mosse da un’idea di palingenesi – appunto – rivoluzionaria, che articolavano in una tattica socialdemocratica fondata, però, sull’idea strategica della fede. Come avviene per persone dotate di una fede profonda, quando questa va in crisi – e ciò avviene, a un certo punto, radicalmente (per così dire quando Dio muore) – si determina il crollo di un’intera visione dell’esistenza, e come spiegano Søren Kierkegaard e Fëdor Dostoevskij «Tutto diventa possibile». Questo è ciò che è accaduto anche ai comunisti italiani quando è crollata l’Unione Sovietica.



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