Bisogna che qualcuno aggiorni il presidente del Consiglio, se è vero, come confidano gli amici, che Matteo Renzi, rovinosamente spiazzato dalla decisione della Corte Costituzionale di bocciare il blocco delle indicizzazioni applicato nel 2012 dal governo di Mario Monti alle pensioni sopra i 1440 euro lordi mensili, si è trattenuto nelle reazioni solo o soprattutto per il timore di essere paragonato a Silvio Berlusconi. Di cui non si contano più gli attacchi sferrati in passato ai giudici del Palazzo della Consulta, questa volta però apprezzati dal fondatore di Forza Italia.
Prima ancora del Berlusconi d’antan, e dell’esordio dello stesso organismo di garanzia, aveva pubblicamente diffidato della Corte Costituzionale Palmiro Togliatti. Sì, proprio lui: il leader del Partito Comunista Italiano, “il Migliore”, con la maiuscola, come lo avvertivano e chiamavano dirigenti, militanti ed elettori del movimento dalla cui storia proviene anche il partito di Renzi, per quanto i suoi avversari interni, in parte ancora dichiaratamente e orgogliosamente comunisti, lo considerino un intruso.
Convinto parlamentarista com’era, persuaso cioè della supremazia delle Camere, dove egli accomunava non a caso le cariche di segretario del partito e capogruppo, Togliatti all’Assemblea Costituente giudicò “una bizzarria” la Corte Costituzionale. E non fece nulla per accelerarne la nascita, che avvenne solo nel 1955, ben sette anni dopo il suo concepimento con l’articolo 134 della Costituzione.
Della Corte voluta per decidere “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi”, “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni”, “sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica” e, sino al 1989, anche sulle accuse al presidente del Consiglio e ai ministri, Togliatti parlava come di “un organo che non si sa cosa sia, e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia per essere giudici”.
A rileggere queste parole, Renzi si sentirà probabilmente anche un po’ togliattiano, oltre che un po’ fanfaniano, un po’ lapiriano, un po’ craxiano e del tutto blairiano, dall’ex premier laburista inglese Tony Blair, che è il solo al quale egli accetti di essere assimilato, considerando impropri o addrittura sbagliati tutti gli altri paragoni.
La Corte Costituzionale, d’altronde, ha fatto poco – bisogna ammetterlo – per dissipare lo scetticismo o pessimismo di Togliatti, ma anche di autorevoli esponenti del liberalismo prefascista come Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando, che condivisero le riserve o la contrarietà del leader comunista alla Consulta.
Non hanno giovato alla Corte, fra l’altro, i trattamenti da casta che si è riservata. Né l’abitudine di eleggere alla presidenza il giudice più vicino alla scadenza del mandato di nove anni, per cui vi sono quasi più presidenti emeriti, cioè ex, che giudici effettivi. Nè una certa contraddittorietà delle sentenze. Né il vezzo, riconosciuto da alcuni degli stessi giudici, di sfuggire con l’inammissibilità dei ricorsi all’imbarazzo di certe decisioni. Nè la degenerazione dei referendum abrogativi delle leggi ordinarie in referendum manipolativi, che snaturano le norme togliendo una parola qua e una là, o solo spostando una virgola. “Giochetti più da cortile che da Corte”, soleva dire Giulio Andreotti dei referendum consentiti dai giudici della Consulta nel 1991 e nel 1993 in materia elettorale.
Neanche il Parlamento, d’altronde, mostra di avere per la Corte Costituzionale il rispetto che le sarebbe dovuto come supremo organo di garanzia, visti i ritardi ormai abituali con i quali rinnova i cinque giudici di elezione appunto parlamentare, man mano che scadono. Ritardi che potrebbero bastare ed avanzare al capo dello Stato per sciogliere anticipatamente le Camere, piuttosto che far prendere ai giudici decisioni delicatissime, come quella sulle indicizzazioni delle pensioni, a ranghi ridotti, cioè senza il plenum dei 15 membri. Ma non diciamolo a Renzi perché l’idea potrebbe piacergli.
Uno dei due giudici di designazione parlamentare scaduti e ancora da eleggere è in ritardo di quasi un anno. L’altro è addirittura Sergio Mattarella, eletto il 31 gennaio scorso alla Presidenza della Repubblica.