Dal 30 novembre all’11 dicembre 196 governi mondiali si troveranno a Parigi alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP21) per sottoscrivere una nuova intesa sul taglio delle emissioni e la lotta al riscaldamento globale. In questi giorni le basi dell’intesa vengono gettate con l’incontro sul clima di Bonn: si lavora a un documento di oltre 80 pagine a all’obiettivo di contenere entro i 2 gradi Celsius l’aumento della temperatura media globale rispetto all’epoca pre-industriale. Ma mentre alcuni sostengono che anche così il futuro del pianeta è a rischio, gli ostacoli lungo la strada si moltiplicano tra scienziati che negano le responsabilità umane nel riscaldamento globale e Paesi emergenti che temono si pongano freni al proprio sviluppo e chiedono che a pagare il conto dei danni siano solo i Paesi ricchi.
IL PIANETA E’ ANCORA A RISCHIO
Nel 2010 i partecipanti della United Nations Framework Convention on Climate Change hanno formalmente riconosciuto come obiettivo a “lungo termine” del proprio lavoro di contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 2 gradi. Tuttavia il gruppo di oltre 70 scienziati, esperti e negoziatori sul clima dell’Onu ha presentato a maggio il suo report finale sui cambiamenti climatici in cui ha concluso che il limite dei 2 gradi non è più sufficiente e ha proposto di contenere il riscaldamento del pianeta entro 1,5 gradi Celsius. Tale visione dovrà essere presa in considerazione nel summit di Parigi.
Il limite di 1,5 gradi è il più drastico finora proposto. L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha finora messo a confronto le differenze tra innalzamenti di 2 o 4 gradi. Il nuovo studio sottolinea tuttavia come nel mondo ci sono ecosistemi particolarmente sensibili, per esempio le regioni polari, l’alta montagna, i Tropici e le zone costiere. Un innalzamento delle temperature di 2 gradi continua a mettere a repentaglio le aree fragili del pianeta. A 1,5 gradi l’innalzamento dei mari sarebbe contenuto sotto un metro e molti dei danni sarebbero evitati, anche se resterebbero non protetti molti Paesi africani e la loro capacità di garantirsi la sussistenza.
Il limite di 1,5 gradi, chiesto da più di due terzi degli esperti del nuovo report Onu, rischia di creare profonde fratture. Già quello dei 2 gradi è stato contestato e respinto da molti Paesi in via di sviluppo alla conferenza sul clima di Copenhagen. Per contenere l’innalzamento delle temperature medie mondiali entro 1,5 gradi occorrono riduzioni delle emissioni immediate e radicali (del 7,1% annuo, contro il 3,4% necessario per stare entro i 2 gradi), con conseguenze sulla crescita economica dei Paesi che non avrebbero precedenti.
SOGLIE PERICOLOSE
Le prove scientifiche dei danni di un innalzamento delle temperature globali oltre 1,5 gradi Celsius sui livelli pre-industriali sono meno folte rispetto a quelle relative ad innalzamenti più robusti. Ma l’idea che la soglia dei 2 gradi non sia sufficiente non è nuova. Dieci anni fa lo scienziato James Hansen disse che 2 gradi “non si possono considerare un obiettivo responsabile” e invocò addirittura il limite di 1 grado. Hansen ha ribadito la sua visione in un’intervista con Abc poche settimane fa: per lo scienziato è “folle” pensare che 2 gradi siano un limite sicuro.
In Gran Bretagna un altro esperto di clima, Kevin Anderson del Tyndall Centre, ha definito i 2 gradi Celsius una soglia “tra il pericoloso e l’estremamente pericoloso” per il cambiamento climatico.
L’IPCC ha anche detto che solo il target ambizioso di 1,5 gradi consentirà un contenimento reale entro i 2 gradi e che, dopo decenni di rinvii, occorre agire subito, “più velocemente di quanto molti politici ritengano possibile”.
“NON E’ UN PROBLEMA”
Esistono ovviamente anche gli scienziati che negano che l’innalzamento delle temperature sia causato dall’uomo e che sia dannoso per il pianeta.
L’americana Judith Curry, una studiosa del clima che va in direzione opposta rispetto alla vulgata sui cambiamenti climatici, ha recentemente dichiarato di fronte alla House Committee on Science, Space and Technology: “La preoccupazione relativa alla mancanza di azione sul clima nasce dalla preoccupazione che un riscaldamento globale sopra i 2 gradi sia pericoloso. Ma le prove sono deboli e i modelli climatici non sono sempre affidabili”. Il direttore dell’americana Fema sotto il presidente George W. Bush, Michael Brown, ha a sua volta scritto su Twitter: “Io nego tutto. Nego che l’uomo stia causando il cambiamento climatico e che quindi siano necessarie azioni politiche per fermarlo. L’uomo non può fermare i cambiamenti del clima”.
Anche alla University of Western Australia esiste una folta schiera di “negazionisti”, tra cui il Professor Bjorn Lomborg che sostiene che il denaro del governo andrebbe speso per obiettivi più utili anziché per ridurre il riscaldamento globale. Alla stessa università, i Professori Matt Ridley e Nic Lewis sono parte della Global Warming Policy Foundation (GWPF) che è contro le politiche per la riduzione dell’inquinamento da CO2 e il rallentamento del riscaldamento globale. Ridley è anche un sostenitore dell’uso senza freni dei combustibili fossili.
Dall’altro lato, la IPCC ha messo insieme tutte le prove scientifiche che dimostrerebbero che è l’uomo la causa almeno del 95% del riscaldamento globale avvenuto dopo il 1950. Il 97% degli scienziati è oggi convinto che sia l’uomo la causa dell’aumento delle temperature.
LA POSIZIONE DEI PAESI EMERGENTI
La resistenza da vincere non è tanto quella degli scienziati contrari ma quella dei politici – come i Repubblicani negli Stati Uniti – e dei Paesi in via di sviluppo, affamati di crescita e energia a basso costo. Cina e India dicono di riconoscere che il cambiamento climatico è un problema reale che va affrontato, ma vogliono che le misure che si pretendono dai Paesi in via di sviluppo siano diverse da quelle richieste ai Paesi ricchi. E vogliono soldi, necessari a finanziare le strategie per ridurre le emissioni, perché tutto ha un costo: rimediare ai danni del clima impazzito come tagliare la CO2 e sviluppare nuove fonti di energia.
I Paesi in via di sviluppo, guidati da Cina e India, spingono perché i Paesi avanzati sblocchino fondi che dovrebbero ammontare a 100 miliardi di dollari l’anno per la fine di questo decennio – un costo che già suscita controversie perché per i Paesi emergenti se ne dovranno fare carico solo i Paesi avanzati, mentre questi ultimi pensano che le responsabilità vadano in qualche modo divise.
L’India inoltre ha assunto una posizione contraddittoria: riconosce i danni del cambiamento climatico ma ha anche detto che non rinuncerà alla programmata costruzione di impianti a carbone e che non permetterà che le misure per combattere il cambiamento climatico mettano a repentaglio il suo sviluppo economico e la lotta alla povertà.
“Cina e India riconoscono i cambiamenti climatici e i loro effetti avversi”, hanno scritto i due Paesi in un documento congiunto. “Lo United Nations Framework Convention on Climate Change e il Protocollo di Kyoto restano il quadro più appropriato per inserire la cooperazione internazionale volta a combattere i cambiamenti climatici”. Cina e India, continua il comunicato, “riaffermano i principi di equità e responsabilità comune ma anche differenziata” tra Paesi ricchi e emergenti e chiedono che siano i Paesi sviluppati a prendersi il carico maggiore della riduzione delle emissioni di gas serra e che questi forniscano “risorse finanziarie, tecnologia e altro supporto ai Paesi in via di sviluppo”.
Anche la presidente brasiliana Dilma Rousseff toccherà il tema del clima nel suo incontro con Barack Obama a Washington questo mese e sicuramente emergerà, scrive Bloomberg, la spaccatura tra gli obiettivi dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi emergenti: il punto di vista del Brasile è che il cambiamento climatico è stato causato soprattutto dai Paesi industrializzati e sono questi ora a doversene assumere il massimo carico finanziario, aiutando al tempo stesso i Paesi emergenti a crescere mentre si liberano, almeno in parte, dai combustibili fossili.
“I Paesi in via di sviluppo non sono ostili nei confronti di un accordo sul clima”, ha spiegato il ministro dell’Ambiente francese Ségolène Royal in un’intervista col Guardian. “Direi che hanno un atteggiamento positivo, ma vogliono vedere in che direzione andranno i Paesi ricchi. Hanno delle aspettative che non dobbiamo deludere”. In pratica, la chiave per il successo del prossimo summit di Parigi sarà la capacità dei Paesi avanzati di proporre ai Paesi in via di sviluppo dei programmi di aiuti economici per ridurre le loro emissioni di gas serra ed evitare che il loro futuro sviluppo si basi sui combustibili fossili.
UN FUTURO SENZA PETROLIO?
Nelle trattative per l’accordo sul clima e nella posizione dei Paesi emergenti un ruolo sarà svolto dal prezzo del petrolio: se dovesse rimanere a lungo sui minimi potrebbe spingere l’intesa al ribasso. Tuttavia perfino l’Arabia Saudita ha dichiarato che il futuro sarà senza combustibili fossili: il ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi ha infatti detto a una recente conferenza a Parigi che il suo Paese in futuro potrebbe arrivare a generare ed esportare energia pulita anziché petrolio. “In Arabia Saudita siamo consapevoli che, nel lungo termine, finiremo col non aver più bisogno dei combustibili fossili. Non so quando, magari nel 2040, nel 2050 o dopo”, ha detto al-Naimi. “E così, prima o poi, invece di esportare combustibili fossili, esporteremo gigawatt di potenza elettrica”.
Il Paese ha avviato un programma di espansione della sua generazione da energia solare, con l’obiettivo iniziale di produrre un terzo della sua elettricità dal sole entro il 2032, poi rinviato al 2040. Ma è un primo segnale che anche nel Paese del petrolio qualcosa potrebbe cambiare.
VERSO PARIGI
Il rinvio saudita dei progetti di generazione solare è però anche un segnale dei ritardi cronici dei programmi mondiali legati alla difesa del clima. Al summit di Parigi il primo imperativo sarà affrettare l’azione per contrastare il riscaldamento globale. Se il premier francese Hollande si è lamentato degli scarsi progressi dei Paesi Onu in vista dell’incontro che si terrà a fine anno nella sua capitale, anche l’International Energy Agency lo scorso mese ha pubblicato uno studio in cui ha concluso che allo stato attuale delle politiche sul clima siamo ben lontani dal poter raggiungere l’obiettivo di contenere il riscaldamento entro i 2 gradi Celsius. “Nonostante segnali positivi in molte aree, dalla prima volta da quando l’IEA conduce il suo monitoraggio sui progressi delle energie pulite, nemmeno una delle tecnologie studiate sta procedendo in modo tale da permettere di raggiungere gli obiettivi. Andiamo verso un futuro molto difficile se non agiamo subito e cambiamo radicalmente il sistema energetico globale”.
Achala Abeysinghe, esperta di clima dell’International Institute for Environment and Development, pensa che a Parigi il focus sarà proprio sulla capacità di agire subito e sulla creazione di obiettivi vincolanti e non volontari, oltre che su un maggior carico, in termini di costi, per i Paesi ricchi.
“Il tempo stringe”, ha scritto David Waskow, international climate director del World Resources Institute. La sessione di negoziati in corso a Bonn “è una delle ultime opportunità di compiere dei progressi prima che si aprano i giochi a dicembre”.