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Ecco le briglie che non fanno correre l’Italia

Riuscire a crescere del 2,5%, anziché dell’1,5%, abbrevierebbe di qualche anno il percorso per tornare ai valori di benessere pre-crisi e aprirebbe una prospettiva di lento ritorno ai livelli che erano nelle possibilità italiane prima delle recessioni, in particolare della seconda caduta recessiva.

E’ immaginabile un simile tasso di crescita? Se si guarda al passato si dovrebbe dire di no. L’Italia da tempo non si espande a ritmi consistenti e bisogna tornare indietro al decennio ’80 dello scorso secolo per trovare un tasso di crescita medio annuo superiore al 2%. Tuttavia, è anche vero che il nostro Paese deve risalire da una recessione senza precedenti che ha fatto sprofondare spesa e produzione. Una ripresa rapida nei primi anni, dopo una simile caduta, può essere nell’ordine delle cose. Perché non avviene?

Nella situazione attuale non sono i vincoli di offerta a frenare le possibilità di sviluppo italiano. Quest’ultime continuano a essere ostacolate, anche nella ripresa, dall’insufficienza della domanda aggregata, su cui incidono la scarsa propensione alla spesa dei privati (a dispetto dello stimolo indotto dalla caduta del petrolio) e i vincoli imposti dall’alto debito pubblico. Le quantificazioni del deficit di domanda sono affette da notevole incertezza. In una fase congiunturale particolarmente sfavorevole come quella attuale, tali valutazioni tendono a sottostimare l’entità del gap apertosi tra spesa complessiva e offerta potenziale a causa della pro-ciclicità che caratterizza la stima dell’output potenziale. Quest’ultima – sia che si basi su filtri statistici, sia che scaturisca da modelli economici che ricorrono comunque a tecniche di filtraggio per le variabili chiave – è influenzata dallo stato del ciclo economico e tende, quindi, a incorporare nel prodotto potenziale gli effetti del breve periodo, per motivi statistici più che economici.

Per tutti i principali previsori internazionali sussiste un deficit di spesa aggregata nella prospettiva di breve periodo. Nelle stime più conservative della Commissione, con i previsti ritmi di crescita della domanda aggregata il gap si chiuderebbe molto presto, tra il 2017 e il 2018. Se così fosse, si dovrebbe pensare che da quel punto in poi, data la maggiore lentezza della crescita dell’offerta, ogni incremento di domanda potrà  indurre effetti di surriscaldamento nell’economia italiana. L’inflazione di fondo, oggi a 0,6%, tra 3-4 anni potrebbe prendere a innalzarsi per eccesso di domanda ben sopra il 2%. Staremmo insomma quasi alla vigilia di un ciclo inflazionistico nell’economia italiana, una situazione opposta di 180 gradi a quella attuale. E’ possibile? Riteniamo che non sia, allo stato attuale, una prospettiva credibile e che, di conseguenza, il deficit di domanda di cui soffre l’economia italiana sia più ampio e persistente di quello supposto dalla Commissione e maggiormente vicino alla valutazione, anch’essa probabilmente in una certa misura sottostimata, dell’Oecd.

Con un output gap del 4-5%, più che doppio rispetto a quello supposto dalla Commissione, vi è spazio per una più rapida ripresa della domanda prima di incontrare i vincoli di offerta, anche perché quest’ultimi  possono allentarsi per gli effetti (economici e non statistici) che una più positiva evoluzione nel breve periodo (domanda) può esercitare sulle dinamiche del lungo periodo (offerta). Una più forte crescita della domanda aggregata rivitalizza, tramite una maggiore propensione a investire, il lato dell’offerta che può prendere a espandersi in misura più significativa. All’opposto, una domanda a lungo stagnante ha impatti negativi, per mancata crescita dello stock di capitale ed effetti di isteresi sulla disoccupazione, sul potenziale produttivo. Il gap negativo che sussiste tra domanda e offerta può anche chiudersi, nel lungo periodo, per l’arretramento di quest’ultima.

Non riteniamo, come detto, che sia questa la prospettiva dei prossimi anni, una situazione che risulterà ancora caratterizzata da una persistente tendenza dell’offerta a eccedere la domanda aggregata; ma il rischio c’è e occorre contrastarlo agendo, appunto, in primo luogo sulla spesa.


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