Una sfida planetaria. Dal 30 novembre all’11 dicembre prossimi, 195 governi mondiali si troveranno a Parigi alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite. L’obiettivo è sottoscrivere una nuova intesa sul taglio delle emissioni e la riduzione del riscaldamento globale. I lavori, in vista del summit, iniziano proprio questa settimana a Bonn e, pur trattandosi di una sessione intermedia, rappresentano un momento cruciale nel percorso che si concluderà tra sei mesi.
LA SESSIONE DI LAVORI INTERMEDIA
Christina Figueres, responsabile per il clima alle Nazioni Unite, Laurent Fabius, ministro francese degli Esteri e futuro presidente della COP21, Manuel Pulgar-Vidal, ministro dell’Ambiente del Perù, che ha presieduto la Conferenza di Lima (COP20), daranno il via a questo tavolo di lavori preliminare che durerà fino all’11 giugno. Le attenzioni delle delegazioni internazionali ruoteranno attorno a un testo di 80 pagine siglato nel mese di febbraio a Ginevra, contenente opzioni talvolta ridondanti e contraddittorie, e su cui è assolutamente necessario apportare tagli e chiarimenti.
«Se verranno mantenute le sezioni più ambiziose (di quel testo) avremo un accordo che potrà promuovere una trasformazione globale verso un futuro verde, a basse emissioni, e sostenibile», ha affermato in un comunicato Mattias Södeberg, responsabile della delegazione di Act, una coalizione che riunisce le organizzazioni ambientaliste di 140 Paesi. Per arrivare a un consenso effettivo sulle regole che dovranno far da cornice alla lotta contro il riscaldamento climatico a partire dal 2020, tuttavia, «il cammino è ancora lungo», ha sottolineato l’economista britannico Nicholas Stern, fautore di una sterzata effettiva degli investimenti verso tecnologie e infrastrutture a basse emissioni di CO2.
I LAVORI PROCEDONO LENTAMENTE
Allo stato attuale, di strada ce n’è ancora molta da fare. Solo 37 su 196 Stati membri dell’ONU, hanno finora, presentato i piani, delineando le azioni che intendono mettere in atto per rallentare il riscaldamento globale oltre il 2020. Christina Figueres assicura comunque che «i governi sono in realtà a buon punto» e che «non c’è dubbio che questo accordo sarà forgiato a Parigi». Le dichiarazioni della Figureres stridono con quelle del presidente francese Francois Hollande che appena una settimana prima si era detto preoccupato per la mancanza di progressi verso un accordo sul clima nella capitale francese.
IL FALLIMENTO DEL VERTICE DI COPENAGHEN DEL 2009
La cautela, in questi casi, non è mai troppa considerando ciò che accadde nel 2009. Allora, le Nazioni Unite si dissero fino all’ultimo momento fiduciose sul raggiungimento di un accordo sul clima, ma il vertice di Copenaghen si rivelò di fatto fallimentare a causa delle obiezioni sollevate da una manciata di paesi che ritenevano le nazioni ricche incapaci di mantenere le promesse sul taglio alle emissioni.
LA POSIZIONE DI FRANCIA E GERMANIA
In questa situazione di incertezza e timori, c’è chi invoca a pieni polmoni un accordo. Nel caso specifico Germania e Francia: «La Francia, che avrà la prossima presidenza della Cop 21 e la Germania, presidente del G7, sono fermamente decise a intraprendere tutti gli sforzi per raggiungere un ambizioso accordo globale e vincolante alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite», hanno riferito in una dichiarazione congiunta la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande. Questi hanno, inoltre, ribadito l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi previsto dal Protocollo di Kyoto firmato nel 1997.
LE BUONE INTENZIONI DEGLI STATI UNITI
Non solo Francia e Germania. Anche gli Stati Uniti sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda delle due nazioni europee. Nei mesi scorsi, il presidente americano Barack Obama, ha ribadito in più di un’occasione quanto siano dannosi gli effetti del global warming per gli Usa. «Il cambiamento climatico è reale come lo sono i suoi effetti: tempeste più forti, siccità più profonde, stagioni di incendi più lunghe e rischi sulla salute pubblica. Proprio di recente – racconta il presidente Usa durante la visita all’area naturale delle Everglades – ho incontrato i medici, gli infermieri e i genitori di pazienti e bambini che sono alle prese con l’impatto del “climate change” sulla salute. Il Pentagono ritiene che il cambiamento climatico ponga una serie crescente di rischi per la nostra sicurezza nazionale».
USA E CLIMA: UN’EREDITà DIFFICILE DA TRADAMANDARE
Ma nonostante le buone intenzioni e l’intesa storica siglata con la Cina lo scorso novembre per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, l’ambiente rischia di essere il punto debole dell’eredità di Obama. «Se si guarda a come si stati sviluppati i principali punti dell’agenda di Obama – scrive il Washington Post -, Iran e proliferazione del nucleare, l’implementazione dell’Obamacare, la riforma della giustizia penale e il mantenimento di misure internazionali e nazionali per contrastare il cambiamento climatico, quest’ultimo è forse quello più vulnerabile».
«Questo perché, in vista delle future elezioni, non ci sono eredi immediati su cui contare che abbracciano la causa, senza contare che si tratta di un tema la cui importanza è ancora oggetto di un’interpretazione “partigiana” e sembra che alla maggior parte degli americani non interessi», conclude il quotidiano. Nessun candidato repubblicano, infatti, ha dimostrato finora di voler intraprendere azioni forti per affrontare il cambiamento climatico, e questo è sicuramente il riflesso dell’opposizione degli elettori più conservatori che esprimono un parere netto e corale durante le primarie.