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Elezioni regionali, la vittoria (a metà) di Matteo Renzi

Scontata la sconfitta nel Veneto, sia pure con un distacco maggiore del previsto fra il governatore leghista uscente Luca Zaia e la sfidante Alessandra Moretti, costretto a subire in Liguria la temuta sconfitta procuratagli dalla frattura della sinistra a vantaggio di un centrodestra ancora targato Berlusconi con il consigliere politico Giovanni Toti, il segretario del Partito Democratico e presidente del Consiglio è riuscito nelle elezioni regionali, sia pure molto faticosamente, a conquistare la Campania con il suo Vincenzo De Luca. E ciò nonostante la fatwa emessa contro di lui all’ultimo momento da Rosy Bindi, che è la presidente della Commissione parlamentare antimafia ma anche, e più notoriamente, un’esponente molto impegnata e intransigente della minoranza antirenziana del Pd.

Messo in questi termini, con la Toscana, l’Umbria, le Marche e la Puglia rimaste nelle mani del Pd, anzi con la Puglia passata, all’interno della sinistra, dalla guida di Nichi Vendola alle redini di un renziano sia pure anomalo e autonomo come Michele Emiliano, l’epilogo delle elezioni regionali costituisce per il presidente del Consiglio un successo. Il 5 a 2 finale è pur sempre migliore del 4 a 3 che lo stesso Renzi aveva messo nel conto temendo di perdere anche in Campania.

Ma dietro questa facciata confortante si è creata per Renzi una situazione difficile e per certi versi nuova rispetto allo scenario delle elezioni europee dell’anno scorso, da lui stravinte, fresco dell’arrivo a Palazzo Chigi, con quasi il 41 per cento dei voti. Che si è quasi dimezzato nelle pur parziali regionali di questa primavera avvicinandosi a quel 25 per cento tante volte rimproverato, anche con derisione, al suo contestatore e predecessore Pier Luigi Bersani.

Di negativo per Renzi resta anche ciò che lo attende come presidente del Consiglio nella gestione del caso De Luca, di cui proprio lui dovrà disporre la sospensione in applicazione della cosiddetta legge Severino, per via di una condanna per abuso d’ufficio rimediata, sia pure in primo grado, ben prima di proporsi alla guida della Campania con primarie non per questo preclusegli dal partito. Ogni ritardo, largamente prevedibile, nell’adozione del decreto di sospensione per consentire a De Luca di nominare uno o più vice e gli assessori, salvaguardando così il risultato elettorale, esporrà Renzi a forti contestazioni, forse di natura non solo politica.

C’è poi l’amaro della Liguria. Che, per quanto previsto, obbligherà probabilmente Renzi come segretario ad aprire nel partito qualcosa che assomiglierà molto ad una resa dei conti con la minoranza, o con quel che ne resta dopo gli scontri parlamentari delle settimane e dei mesi scorsi. Una minoranza ridotta e divisa rispetto alla consistenza originaria ma pur sempre in grado di nuocere alla maggioranza, come dimostrano appunto i risultati elettorali della Liguria. Una minoranza, ancora, che Renzi si era illuso di avere pacificato con l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, anche a costo di rompere il patto “istituzionale” con Berlusconi.

Il conflitto che aspetta il segretario con i dissidenti per la gestione del partito s’intreccerà inevitabilmente, chissà con quali effetti, con il percorso parlamentare delle riforme in cantiere, a cominciare naturalmente da quella istituzionale per la riduzione del Senato a un dopolavoro dei Consigli regionali.

Non minori tuttavia sono i problemi dei concorrenti o avversari esterni di Renzi dopo questo turno elettorale. Il successo del suo consigliere Giovanni Toti in Liguria non risparmia a Berlusconi il tonfo in Puglia, dove Raffaele Fitto è prevalso su di lui, sia pure fra i perdenti. Né gli risparmia il terreno perduto dappertutto nel Nord, anche in Toscana, a vantaggio della Lega di Matteo Salvini. Che, grazie anche alla irrilevanza registrata dai cosiddetti centristi, cercherà di investire il sorpasso, nonostante la debolezza confermata al Sud, nella contesa della leadership per quel fronte dei moderati che Berlusconi persegue con la sua solita ostinazione.

I grillini, infine, pur baldanzosi per le posizioni di secondo partito tenute o guadagnate un po’ dappertutto per una loro aumentata presenza in televisione, contro gli originari divieti del loro capo, non possono sottrarsi all’evidenza di un elettorato di protesta, o d’indifferenza, che sempre più numeroso preferisce astenersi dalle urne, piuttosto che votare i candidati del comico genovese. L’affluenza alle urne è stata infatti solo del 52 per cento.


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