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Ho visto Orco 2.0, il mostro che s’aggira tra Facebook e Twitter

Possiamo anche darle un nomignolo tecnologico, tanto per renderla moderna, chiamandola magari 2.0. Ma rimane il fatto che sia una brutta aria, quella che ormai da diverso tempo si sente tirare online. Volendola chiamare con il suo vero nome, altro non è che un gran fetore. Arriva accompagnato da folate d’intolleranza, refoli di violenza, spifferi di razzismo, tutti mostri riassumibili in un’unica parola e in un mostro soltanto: si chiama Odio.

È un odio inedito, virtuale, ma non per questo meno pericoloso. Anzi, oltre Oceano c’è chi l’ha già sociologicamente incasellato battezzandolo Digital Hatred, per farne materia di studio. Il fatto più preoccupante è che questa brutta aria soffi lì dove meno te l’aspetti, sempre in agguato nei commenti ai blog e rimbalzando poi tra i post di Facebook e i cinguettii di Twitter. Perché è lì, nei luoghi inesistenti di un mondo virtuale, che prende invece paradossalmente forma di concrete atrocità. Le trovi ogni giorno, parole nero su bianco urlate e vomitate – non più scritte – sotto la fotografia di un tale incravattato dall’aria professionale, di una signora in irriprensibile tailleur salottiero, di un giovane papà sorridente e abbronzato che sulla spiaggia stringe tra le braccia un bambino. Povero bambino!

Succede ovunque, nel mondo. Nessun Paese ne sembra esserne esente. Succede – era inevitabile – anche a casa nostra. Così, per fare un esempio, trecento “mi piace” di gradimento finirono tempo fa sotto il tronfio annuncio di un essere (come chiamarlo persona?) che aveva assassinato la moglie sentendo poi l’urgenza di condividere coram populo il delitto sulla sua pagina Facebook. Mesi fa, sotto il profilo di un bulletto nullafacente dell’hinterland milanese, uno appena arrestato per aver ucciso un barbone “colpevole” di avergli accarezzato il cane, spuntarono grappoli di cuoricini e dozzine di appassionate dichiarazioni d’amore da parte di altrettante fan. Echi di un orrore quotidiano, di un Isis da salotto buono che si amplificano in quanto non arrivano da Mosul o da altre lacerate zone di guerra, ma da città italiane.

Ho citato due soli esempi, tanto per tracciare la punta più aguzza e allarmante del fenomeno. A preoccupare, però, è come al solito il grosso dell’iceberg, la parte che sta sotto, quella che non si vede o che forse a molti sfugge. Ed è qui il vero rischio: che diventi norma, abitudine, effimera chiacchiera da bar mentre rimestiamo la schiuma a forma di cuore che il barista ci ha appena servito. Eppure basterebbe poco. Basterebbe prestare attenzione e orecchio perché quell’odio – volendo – lo si sente. E soprattutto lo si può leggere, se si conserva ancora una minima sensibilità d’animo, oltre che una normale consuetudine nell’uso delle parole; perché la semantica conta e a volte può dirci molte più cose di quante non ce ne possa raccontare un’immagine televisiva, che per sua natura scorre via.

Anziché 2.0, potremmo chiamare questo nuovo mostro con un nome antico: quello dell’Orco che i nonni di una volta, raccontando le favole, additavano ai bambini per metterli in guardia da eventuali pericoli. E quella brutta aria un pericolo lo è: potenzialmente terribile. Può prendere le mosse da un argomento sì importante, ma non vitale, come la politica; passare di lì attraverso uno ancora più ininfluente come il tifo calcistico; per approdare infine su altri argomenti di varia umanità, come potrebbero essere il giudizio su un film, su un cantante o su un attore.

Cose in sé superflue, risibili, eppure… Eppure apriti Cielo, perché ormai perfino per argomenti così piove giù di tutto: insulti, volgarità, turpiloquio, auspici di malattie incurabili e minacce di morte per banalità che a lume di ragione meriterebbero al massimo un’alzata di spalle, se non addirittura un divertito sorriso. E invece no, per qualcuno sono motivi sufficienti per odiare e per fargli sentire la necessità, o quasi il dovere – per soppramercato – di farlo sapere al mondo. Quasi che odiare dia un senso alle loro vite. Con il triste risultato tra la tanta brava gente che in questo Paese lavora a testa bassa, fa volontariato, sa ancora amare e rispettare il prossimo, si aggira un Italiano nuovo. Non è maggioranza, sia ben chiaro, ma spaventa in quanto vi si ritrovano uomini, donne, perfino giovanissimi, che tra le righe intuisci cattivi, irosi, esacerbati, tali da non accettare nemmeno l’elementare, ma meravigliosa bellezza contenuta nelle opinioni diverse dalle loro.

Le vivono invece come offese personali. Ma non sapendo partorire altro, replicano ricorrendo a offese oltre misura. Analfabeti di parole buone e di morale, l’unico linguaggio che sembrano conoscere è quello della violenza. Se magari li fiuti a distanza e decidi quindi di lasciar perdere, alcuni di loro addirittura ti “inseguono” virtualmente, cercano di provocarti, di tirarti dentro ancora, come se quell’aggressività fosse diventata ormai per loro una sorta di irrinunciabile ossigeno. Se poi usi l’ironia tacciono, ma capisci che sono dall’altra parte, alla tastiera: friggono impotenti, delusi e spiazzati dai tuoi sorrisi verbali. Perché loro non sanno più sorridere. Così ti ritrovi a ringraziare il cielo che in Italia la vendita delle armi sia più regolamentata rispetto a quanto accade negli Usa. Altrimenti, anche qui, sai che stragi, nelle scuole o nei supermercati!

Ma intanto, online, le parole volano come proiettili. Si arriva ad atrocità senza nemmeno più aggettivi, come gli auguri di morte che ho letto, rivolti da (tanti) sedicenti animalisti a una ragazza ammalata di cancro che si era permessa di difendere la ricerca scientifica sulle cavie: l’estrema speranza per lei, oggi, ma che potrebbe esserlo un domani anche per quegli orchi. Se gli orchi si ammalassero!

Ancora: ci siamo imbattuti tutti – ed è l’avvilente cronaca di questi giorni – nelle vigliacche e gratuite volgarità maschiliste rivolte così, soltanto perché è donna, ma lei sì coraggiosa, contro l’astronauta Samantha Cristoforetti appena ritornata sulla Terra. Bravi invece loro, pezzi di idioti e machi soltanto sulla carta, o al massimo in un letto, pur se con il “sostegno” di qualche pasticca blu!

Ho trovato frasi desolanti – e siamo nel 2015 – come certi commenti forcaioli alla notizia che nel mondo sono vivaddio in aumento i Paesi aderenti alla moratoria dell’Onu sulla pena capitale. Ne ho letti a centinaia – rozzi, sgrammaticati e comunque ignoranti – che invocavano l’introduzione di quell’orrore anche in Italia. A scriverli, tutta gente che non ha ovviamente la più pallida idea di chi sia stato Cesare Beccaria, né tantomeno conosce che cosa avesse scritto (ricordiamolo: Dei delitti e delle pene, correva l’anno 1764!). È gente che sembra non essere più in grado di pensare. Gente che non arriva nemmeno a capire come una simile fine potrebbe toccare per uno sbaglio giudiziario o per una falsa testimonianza a chiunque, compresi loro, i loro figli, gli amici e i conoscenti. Questo proprio mentre l’afroamericano Ricky Jackson usciva dal carcere innocente, dopo 39 anni, vittima di uno sbaglio o forse del colpevole pregiudizio razziale di una giuria popolare che lo aveva condannato a morte: oggi è vivo soltanto perché lo Stato dell’Ohio aveva vivaddio sospeso le esecuzioni dagli anni Sessanta.

Cose che dovrebbero fare ragionare. Cose che capirebbe anche un bambino. Specialmente quando in Italia si chiede (in modo sacrosanto) la responsabilità civile dei giudici come difesa dei cittadini contro i possibili errori del sistema. Basterebbe appunto dimenticare la “pancia”, che serve ad altro, e fermarsi a pensare usando un altro organo: il cervello. Certo, sempre a condizione di averne uno. Non è nemmeno difficile arrivarci da soli: perché una carcerazione ingiusta la puoi sempre risarcire, scriveva nel 1764 Beccaria. Ma un assassinio di Stato, quello no. Sempre nella speranza che almeno “assassinio” venga ancora considerata un’orribile parola.

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