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I ribelli siriani addestrati dagli USA (“Siamo alle comiche” edition)

Perugia ─ Un’esclusiva del Daily Beast: il sito d’informazione americano ha incontrato un capo dei ribelli siriani che dice che il suo gruppo chiave uscirà dal programma di addestramento promosso dagli Stati Uniti.

Nel progetto studiato dagli americani, i ribelli siriani ─ addestrati, formati e riforniti di armamenti ─ sarebbero dovuti diventare i boots on the ground contro lo Stato islamico in Siria. Le parole di Mustafa Sejari, leader di un gruppo di un migliaio di combattenti (cioè un quinto dell’intero nucleo che il programma si prevede di addestrare) che hanno già passato il vaglio dell’approvazione statunitense, arrivano nel momento in cui l’IS sta marciando su Aleppo, seconda città della Siria. E tutto mentre Reuters diffonde la notizia che Washington accusa il regime siriano di favorire l’avanzata del Califfato sulla città del nord siriano, attraverso bombardamenti mirati ad indebolire gli altri gruppi ribelli combattenti nell’area. Sembra un paradosso, un’assurdità, ma è una prassi non del tutto nuova: da tempo il governo siriano è accusato di favorire l’espansione del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi. Ma come mai Damasco dovrebbe favorire l’avanzata di un suo nemico? Perché così facendo Bashar Assad può dipingere l’opposizione alla sua dispotica presidenza come un gruppo di pericolosissimi jihadisti terroristi globali, proxy che gli permetterebbe di passare come “il meno peggio” dei due schieramenti, e di riaccreditarsi sul teatro della diplomazia internazionale.

Il problema principale tra quelli sollevati da Sejari, sta nel fatto che gli USA vorrebbero vietare nelle regole d’ingaggio proposte ai ribelli addestrati, di combattere direttamente le forze dell’esercito di Assad o quelle degli alleati lealisti (vedi alla voce Hezbollah, milizie sciite filo iraniane, shabiha del regime). L’unico obiettivo devono essere le forze del Califfato. La questione è già nota, e se n’è parlato un mese fa su Formiche: «Per usare i ribelli siriani, serve di metterli anche contro Assad» era il titolo di quell’articolo che riportava questioni analoghe a quelle segnalate nel pezzo del Daily Beast da Sejari.

«Abbiamo presentato i nomi dei 1.000 combattenti per il programma, ma poi abbiamo avuto la richiesta di promettere di non usare la nostra formazione contro Assad» ha detto il leader ribelle, aggiungendo: «È stato un ufficiale di collegamento del dipartimento della Difesa che ha trasmesso questa condizione a noi per via orale, dicendo che avremmo dovuto firmare un modulo. Ci ha detto, “Abbiamo ottenuto questi soldi da parte del Congresso per un programma per combattere solo l’ISIL”. Questa ragione non è stato convincente per me. Così abbiamo detto no».

La burocrazia oltre la ragione. Non è possibile chiedere a chi ha investito tutto della propria vita per liberare la Siria, di addestrarsi a combattere “per te”, per liberare la Siria dal Califfato, ma non da Assad ─ dettaglio da non sottovalutare: quando quelli come Sejari si sono messi in armi, “liberare la Siria” significava rovesciare Assad, il Califfato ancora non esisteva e nemmeno l’ISIS. Ma attenzioni: perdere questo gruppo ribelle, non significherebbe soltanto perdere unità combattenti e forze, ma rischierebbe di creare il precedente. Sarebbe come se crollasse una pietra angolare del progetto.

Dietro alla posizione di Sejari, c’è un’ampia questione anche geopolitica. Il fatto non riguarda soltanto i gruppi combattenti ─ che tra l’altro se dovessero andare solo contro l’IS si troverebbero sotto un fuoco incrociato, da un lato il regime e gli alleati, dall’altro i jihadisti. Il programma di training dovrebbe essere gestito da Giordania e Turchia per conto degli Stati Uniti, ma Washington e Ankara non si sono mai messi d’accordo proprio su quelle regole di ingaggio. La Turchia è molto esposta contro Assad (tanto che ci sono accuse sulla possibilità che abbia fornito armi anche a gruppi radicali e discutibili pur di combattere Damasco): ufficialmente i turchi chiedono che ai ribelli venga fornito appoggio aereo, ma gli americani sono scettici. Sebbene sia noto che la necessità di aver un supporto dall’alto, è una richiesta fondamentale mossa dai combattenti sul terreno, che lamentano l’impossibilità di consolidare le proprie conquiste contro l’IS, senza l’aiuto aereo.

Secondo il Wall Street Journal, Obama teme che se i raid aerei americani dovessero venir guidati dai ribelli sul campo contro le postazioni governative, gli iraniani ─ che sono alleati di Assad in Siria ─ potrebbero istruire le milizie sciite a colpire gli americani in Iraq (e non sarebbe la prima volta!).

Il programma di addestramento dei ribelli siriani procede lentissimamente e ormai per diversi analisti è diventato quasi una barzelletta: doveva essere operativo già in questi mesi, ma Ash Carter, il capo del Pentagono, ha detto che finora sono pronti a combattere soltanto 90 uomini (su 5000 previsti, si ricorda). Un portavoce di CENTCOM (il comando del Pentagono che si occupa delle operazioni in Medio Oriente) ha detto che finora ci sono state 3700 candidature per partecipare al training, ma solo 400 sono state accettate e altre 800 in fase di valutazione definitiva. Il responsabile del progetto, gen. Michael Nagata, si è dimesso senza spiegazioni. Ora una formazione che doveva rappresentare il 20 per cento dell’intero gruppo combattente si sta tirando fuori, e tutto rischia di crollare ─ e pensare che il piano era uno dei punti cardine della “strategia di Obama”.

@danemblog

(Foto: Reuters / Jalal al Mamo)

 

 

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