La notizia elettorale proveniente dalla Turchia è stata riferita dai media ma poca analisi si è presentata. Eppure all’Italia dovrebbe riguardare moltissimo che cosa succede in Turchia. Dopo 13 anni di egemonia il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo partito islamico AKP giorni fa hanno perso la maggioranza assoluta del parlamento di Ankara. Un partito pro Curdo, Partito Democratico del Popolo Curdo (HDP), ha superato la soglia del 10% dei voti e ha ricevuto anche molti voti da turchi stanchi dell’islamizzazione esagerata di Erdogan, delle guerre sulle frontiere siriana e irachena, e del ruolo che la Turchia in associazione con i Fratelli Musulmani del Qatar e i reazionari islamici sauditi sta giocando con i padroni del Califfato, noto come Stato Islamico (IS). A dire il vero il solo giornalista italiano sul terreno che scrive cose di alta qualità è Alberto Negri. Gli altri seguono le agenzie e le vacue letture della diplomazia europea.
Non si tratta solo di discutere gli effetti interni alla Turchia del risultato elettorale ma, piuttosto, il suo riflesso regionale e internazionale. L’indebolimento di Erdogan ha effetti su tutti gli equilibri regionali, e indirettamente sull’UE. Nell’intricato Medio Oriente, in grandi linee, si può dire che una Turchia meno islamista e meno prona alla costruzione di un risveglio neo-ottomano in chiave politica, rappresentata dai Fratelli Musulmani, ha i seguenti effetti: a) rafforza i reazionari sauditi, da sempre contrari alla ‘fratellanza’, e con essi i reazionari israeliani, egiziani, e, paradossalmente, anche se per motivi diversi, quelli sciiti iraniani, iracheni e libanesi; b) indirettamente dà fiato al regime alawita di Assad in Siria, nonostante le voci di accordi tra le grandi potenze, Russia per prima, per offrirgli un esilio dorato; c) rende sempre meno escludibile la creazione di uno Stato Curdo in Iraq e in Siria, oltre ad un riconoscimento del popolo Curdo che, complice la linea massimalista di Ocalan consegnato dall’Italia alla Turchia, sembrava impossibile; d) espone l’UE all’imbarazzo di aver rifiutato l’adesione della Turchia, ancora una volta dagli anni ’60, in base a presunte carenze democratiche; e) indebolisce i principi dell’ignobile patto del 1916 tra Francia e Regno Unito – Sykes-Picot – che, sulle spoglie dell’Impero ottomano, decisero segretamente di escludere la Russia e spartirsi il Medio Oriente creando Stati quanto mai insostenibili senza l’uso della forza. Altro effetto pregnante è che la Turchia, un importante membro della NATO e alleato USA, potrebbe smarcarsi dalle politiche e strategie americane per accedere ad accordi alternativi e meno condizionanti di quelli occidentali.
Certo questo sarebbe il terremoto perfetto che spariglierebbe molte ‘sicure’ alleanze, metterebbe l’UE davanti alla sua disastrosa immagine avvolta nel fallimento della Grecia e di Cipro, e costringerebbe gli USA a negoziare seriamente sia con l’Iran sia con la Russia. Allo stesso tempo, un tale scenario aumenta considerevolmente i rischi di ‘fallimento’ dei negoziati in corso in Medio Oriente. Essi sono simultanei e interconnessi, dalla Palestina all’Iran, dall’Egitto alla Libia e all’Algeria, dallo Yemen al Libano.
Mentre tutti i principali attori si agitano nel tentativo di prevalere e dominare la regione, è la Cina che silenziosamente e seguendo un progetto di lungo termine, sebbene stizzita e irritata da certe scelte occidentali, collegherà alle sue ‘nuove vie della seta’ quel che resterà del Medio Oriente inventato dagli europei all’inizio del XX secolo. Già in Africa, dal Congo alla Nigeria, dal Sud Africa al Kenya, la Cina è strutturalmente presente ed esercita un’influenza visibilmente superiore alla combinazione degli occidentali.
Il terremoto turco ha il potenziale di cambiare la carta geopolitica del Medio Oriente e di avere effetti oltre i suoi confini geografici.