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Immigrazione, ecco il pugno allo stomaco incassato da Renzi in Europa

Data anche l’irruente avanzata dei populismi e dei localismi, i temi legati all’immigrazione hanno in Europa troppa valenza politica interna per essere regolati a livello comunitario. Tutti si appellano alla solidarietà e ai grandi principi che hanno informato la costruzione europea. E’ un’ipocrisia. La realtà è diversa. La solidarietà ha un preciso limite. Nessuno ne accetta i costi, eccetto nel caso in cui la controparte abbia qualcosa da offrire in cambio. Lo si è visto nel Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno, caratterizzato da dibattiti feroci e da esiti minimali.

E’ mancato un accordo sulla politica europea dell’immigrazione. Questo si sapeva già. La ridistribuzione dei rifugiati in discussione al Consiglio ne riguardava solo 40.000, in due anni: 24.000 dall’Italia e 16.000 dalla Grecia, limitatamente a siriani e a eritrei. Era un “passettino” timido, non una politica che dovrebbe riguardare oltre mezzo milione di immigrati all’anno, che raggiungono l’Europa per poco più di un terzo attraverso il Mediterraneo e per due terzi per la “via balcanica”.

Realisticamente era impossibile che fosse decisa una politica europea sull’immigrazione. Molti Stati, fra cui l’Italia, non ne hanno neppure una nazionale, ma si affidano all’improvvisazione e alla buona sorte. L’asprezza dei dibattiti svoltisi nel Consiglio Europeo ha messo in luce quanto siano mutati gli equilibri fra le istituzioni. L’approccio comunitario della Commissione è stato perdente, quasi quanto le aspettative italiane che l’Europa tirasse fuori una bacchetta magica.

Ha prevalso l’approccio intergovernativo, che consente a ogni Stato di tutelare i propri interessi particolari. Il piano Junker di una ricollocazione secondo quote obbligatorie, calcolate a Bruxelles, è stato contestato non solo dai singoli Paesi – che considerano l’obbligatorietà un vulnus alla loro sovranità e interessi – ma anche, in misura del tutto impropria – data la loro funzione di moderatori , dai due presidenti del Consiglio: quello permanente, il polacco Tusk, e quello semestrale, lituano. A buon rendere, non appena sarà possibile, avrebbero detto Cavour o Bismark.

Nel documento finale non si parla di quote obbligatorie per la ripartizione dei profughi. Per dare un contentino a chi le voleva, come l’Italia, nel comunicato finale del Consiglio, non si accenna né all’obbligatorietà né alla volontarietà di accettare i rifugiati. E’ la classica “pezza a colori”, per poter consentire di “cantare vittoria in patria”. La volontarietà è implicita ogniqualvolta un determinato provvedimento non è obbligatorio.

Comunque, le aspettative sull’accordo sui rifugiati erano irrealistiche. Per bene che fosse andata avrebbe riguardato meno del 7% degli oltre 600.000 immigranti, arrivati l’anno scorso in Europa. Nessuna modifica all’accordo di Dublino sulla responsabilità dello Stato d’entrata nell’Unione. Nessun tentativo di collegare i rimpatri con accordi dell’intera UE con gli Stati d’origine degli immigranti. Eppure, una politica sull’immigrazione è centrale per il futuro dell’Italia e dell’Europa, in cui il declino demografico è generale. Essa dovrebbe accordare il numero e la qualità degli immigranti con le necessità dell’economia, e prevedere modalità d’integrazione abbastanza omogenee per non creare squilibri nell’ambito dell’UE e, al tempo stesso, per non distruggere la coesione e l’identità culturale dei vari paesi.

E’ stata una sconfitta – quasi un pugno nello stomaco – per il governo italiano e per la Commissione. A Renzi ha certamente fatto più male che a Juncker. Eppure, il deludente risultato era prevedibile. La posizione italiana era oggettivamente debole. Renzi non si presentava solo con le mani vuote – in diplomazia internazionale i principi non bastano mai – ma anche avendo un paese diviso e litigioso. Talune regioni italiane rifiutano di accogliere gli immigrati, come deciso dal governo. Un importante sindacato – non ho proprio capito perché – si oppone anche ai rimpatri. Il famoso “piano B” per la Libia non esiste, se non nelle fantasie di qualche politico che per criticare il governo propone le soluzioni più strampalate e irrealistiche.

L’unica nostra realistica possibilità è oggi di sostenere il piano dell’inviato speciale dell’ONU, Bernardino Leon, volto a costituire in Libia un governo di unità nazionale. Qualora non ci riuscisse, ci resterebbero due possibilità. Quella di sostenere, il generale Kalifa Hafter e il governo egiziano perché mettano un po’ d’ordine in Libia, anche nell’Ovest del paese, da cui partono gli scafisti per le nostre coste. Oppure – sperando che non intervenga qualche volenteroso magistrato – quella di pagare qualche milizia perché attacchi le bande dei trafficanti e faccia il “lavoro sporco” che, nella nostra visione buonista e legalista di come dovrebbe funzionare il mondo, non siamo in condizioni di fare direttamente.

Comunque sia, un’azione italiana un po’ “sportiva” non potrebbe risolvere il problema in via definitiva. Il divario demografico fra l’Europa e l’Africa renderà impossibile frenare l’immigrazione. I profitti del traffico di esseri umani sono troppo elevati per dissuadere chi ne approfitta. Non occorrerà solo combattere gli scafisti, ma anche chi approfitta dell’immigrazione incontrollata per “fare opere di bene”, cioè per far soldi o per guadagnarsi il paradiso, il che sostanzialmente non è molto differente per quanto riguarda l’impatto socio-politico delle ondate immigratorie.


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