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Israele crea uno special team per attaccare l’Iran (che non si sa mai)

Perugia ─ Doveva essere oggi 30 giugno la deadline per il deal sul nucleare iraniano, ma la data è stata prorogata, spostata per l’ennesima volta, nell’ottica di un negoziato difficilissimo che con ogni probabilità sta attraversando la fase più complicata nonostante l’intesa generica trovata con l’accordo quadro siglato ad aprile. Ci sono aspetti che sembrano ancora fermi al momento in cui la trattativa è iniziata, cioè 18 mesi fa. Come saranno gestite le ispezioni internazionali? Teheran permetterà la presenza degli osservatori nelle proprie centrali? Che tempi di sviluppo dovranno avere le infrastrutture nucleari iraniane? E poi c’è il grande tema, quello sollevato da Alan Kuperman sul New York Times: l’allungamento del tempo di breakout, cioè quello necessario all’Iran per produrre uranio arricchito a livello militare ─ adesso è di due/tre mesi, lo spegnimento di diverse centrifughe dovrebbe portarlo fino a un anno, ma successivamente nuovi sviluppi dell’industria nucleare iraniana potrebbero farlo anche scendere a una settimana.

Tutti gli attori istituzionali al tavolo negoziale, si dicono, per lo meno a parole, fiduciosi sulla possibilità di trovare a breve un’intesa (posizioni ufficiali, che spesso si scontrano con le rivelazioni ai media di anonimi funzionari che seguono i colloqui o con le letture degli analisti). Tra questi, una specie di convitato di pietra è Israele: la Repubblica Islamica è nemica esistenziale dello stato ebraico (l’affermazione può avere anche l’opposta direzionalità), per questo Tel Aviv non partecipa ai negoziati, anzi, non perde occasione per delegittimarli e descriverli come il massimo dei mali possibili in questo momento.

Teheran è considerata dagli israeliani una minaccia incombente, e in questo trova ragione quanto rivelato dal sito di informazione in lingua ebraica Walla!, secondo cui il capo di stato maggiore di IDF (l’esercito israeliano), Gadi Eizenkot, ha messo il suo vice, Yair Golan, a capo di una squadra che dovrà studiare un piano di attacco militare da utilizzare contro l’Iran.

Sui giornali israeliani più vicini alle istanze della Difesa, da tempo si legge della necessità che la Knesset non tagli i bilanci militari, perché la possibile firma dell’accordo sul nucleare iraniano, significherebbe il caos nella regione mediorientale, e potrebbe richiedere un impegno armato contro Teheran. In realtà l’opzione di un attacco alle centrali nucleari iraniane è in pianificazione da oltre 15 anni, spostando puntualmente i bilanci soprattutto dell’Aviazione, perché l’opzione di una serie di attacchi aerei è considerata la più percorribile a tutt’oggi. Due mesi fa tutti i membri degli squadroni di F16 israeliani, hanno tenuto un’esercitazione in Grecia: l’addestramento riguardava operazioni rapide notturne in un teatro operativo sconosciuto. Testimonianza che si trattava di un training mirato, è lo schieramento a terra di sistemi missilistici avanzati tipo gli S-300, che la Russia ha in consegna per l’Iran.

Il clima che si respira negli ambienti più tosti di Tel Aviv è semplicemente riassumibile: l’Iran sta bluffando. Mente sullo stop al progresso nucleare militare, mente sul numero dei reattori, mente sull’intero programma. A questo si aggiunge il timore che il sollevamento delle sanzioni internazionali possa arricchire le casse degli ayatollah di soldi che poi potrebbero finire per alimentare gruppi terroristici filo-iraniani e nemici di Israele (Hezbollah e Hamas, in pratica).

La preoccupazione del “nemico-Iran” sta accomunando le visioni strategiche di alcuni Paesi dell’area mediorientale che in precedenza non avevano rapporti diplomatici così cordiali. Un paio di settimane fa, due alti funzionari del governo saudita e di quello israeliano hanno tenuto un incontro comune (dove hanno parlato di una strategia per contrastare Teheran) in un think tank di Washington.La scorsa settimana Haaretz parlava di colloqui distensivi tra Turchia e Israele avvenuti in segreto a Roma. I due Paesi una volta erano alleati, ma i rapporti si sono interrotti dopo che nel 2010 un commando di incursori dell’unità speciale israeliana “Shayetet 13”, nell’ambito dell’operazione militare “Brezza Marina”, aveva assaltato la nave turca “MV Mavi Marmara” appartenente alla Freedom Flotillia per Gaza, mentre cercava di forzare il blocco navale portando aiuti umanitari nella Striscia. Negli scontri sul ponte della nave, nove attivisti rimasero uccisi e decine feriti, mentre sono stati feriti (due in gravi condizioni) anche diversi militari.

La condanna da parte di Ankara dell’assalto, aveva aperto la crisi diplomatica tra i due Paesi con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano. Ora si parla di un risarcimento che Israele pagherà alle famiglie delle vittime, come richiesto dalla Turchia. La possibilità della soluzione arriva due settimane dopo che l’AKP, il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, non nuovo ad uscite antisioniste, ha perso la maggioranza in parlamento, ma non solo.

Negli anni attorno al 2010, la Turchia, in piena spinta economica e di crescita, era diventata il fulcro della geopolitica regionale ed era riuscita in parte ad offuscare l’influenza iraniana in Siria, Libano, Palestina e Iraq. A quei tempi, facendo leva su quella nuova centralità, Ankara, membro Nato ma non nuova a posizioni estremamente ambigue, si era esposta a difesa del programma nucleare iraniano e proposta nel ruolo di mediazione con Teheran ─ arrivò pure a votare contro le sanzioni chieste dall’America al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ora la Turchia è stata completamente estromessa dai negoziati del 5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Inghilterra, Germania) che hanno portato avanti quest’anno e mezzo di colloqui con l’Iran; in più in questo momento, il possibile accordo si basa su equilibri geopolitici completamente rovesciati. La Turchia non gode più di quella propulsione, e all’opposto l’Iran, con il ruolo svolto nella lotta al Califfato praticamente al fianco della Coalizione internazionale in Iraq e Siria, e con l’influenza pesante di cui gode a Baghdad e Damasco (e Beirut e Sana’a), si trova in una posizione di assoluto favore. Gli errori di Ankara nella gestione delle Primavere arabe, l’ambiguità nei confronti delle posizioni radicali incarnate dai gruppi jihadisti sunniti, hanno spostato l’influenza mediorientale che aveva la Turchia, verso l’Iran.

Erdogan sa che dovrà ricostruirsi una posizione, e gioca al solito la carta dell’ambiguità. Se non si schiera contro Teheran, non vuole nemmeno mettersi contro i nemici di Teheran, e lascia lo spazio politico a una riconciliazione con Israele.

@danemblog 

 

 

 

 


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