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Così Jeh Johnson difenderà gli Usa dai cyber attacchi

Far sì che la Silicon Valley cooperi per la sicurezza degli Stati Uniti sarà la principale sfida del segretario dell’Homeland Security americana, Jeh Johnson.

Un compito, spiega dalle colonne del Washington Post David Ignatius, che si preannuncia, però, tutt’altro che semplice.

LE RETICENZE DEI BIG

Coinvolgere i big della Rete nella lotta per la cyber security, prosegue il quotidiano della capitale federale – sarebbe fondamentale per difendere in modo migliore i cittadini. Tuttavia, nell’era post Snowden, scrive l’editorialista, le compagnie tecnologiche americane sono spaventate e e adottano strumenti crittografici ancora più forti, per convincere i clienti che la loro privacy non è minacciata.

PERICOLI CRESCENTI

Per Johnson, – racconta Ignatius – questo braccio di ferro è andato troppo in là, tanto da mettere in pericolo il Paese. “La crittografia – ha rimarcato – sta rendendo più difficile per il governo scovare attività criminali e potenziali terroristi”.

Le corporation della Silicon Valley non ne sono convinte, ma i cyber attacchi si moltiplicano e, sempre più spesso, hanno come target proprio obiettivi pubblici. Come la recente notizia di una delle più grandi offensive ai danni del governo federale. L’hack è di dicembre 2014, è stato scoperto ad aprile 2015, ma il fatto è trapelato solo il 4 giugno: sono stati rubati dati altamente sensibili relativi a 4 milioni di impiegati.

IL NODO DEL REPORTING

Per scongiurare che possa accadere ancora, i membri del Congresso spingono per stringere ancora di più le maglie del cosiddetto reporting, incluso nel Cybersecurity Information Sharing Act. Si tratta del requisito che verrebbe imposto sulle aziende – a cui vengono spesso appaltati alcuni servizi – di dare al governo notizia degli attacchi subiti dai propri sistemi informatici.

Un punto che, di fatto, rappresenta l’asse portante della partnership pubblico-privato in materia di sicurezza cibernetica immaginata dalla Casa Bianca, ma che viene fortemente osteggiato dalle imprese. Che il clima sia teso lo si è ben capito il 13 febbraio scorso, alla Stanford University a Palo Alto, quando la Casa Bianca aveva organizzato un vertice sulla cybersicurezza e la protezione dei consumatori, disertato dai volti più noti del mondo delle nuove tecnologie: da Mark Zuckerberg (Facebook) a Marissa Mayer (Yahoo!),  da Larry Page a Erich Schmidt (Google).

LA COLLABORAZIONE CHE SERVE

Il timore dei big della Rete è che quanto proposto dal governo sia un tentativo di di più il web e dunque la vita dei cittadini americani. Questo, sono preoccupati i giganti di Internet, potrebbe far perdere loro la fiducia nei servizi offerti dalle aziende, e allontanarli così dal loro business.

Eppure Johnson è convinto che una collaborazione sia possibile, anche grazie all’apporto degli alleati statunitensi in giro per il mondo. “Abbiamo bisogno l’uno dell’altro – ha detto – e dobbiamo lavorare insieme. Ci sono cose che il governo può fare per voi e ci sono cose che abbiamo bisogno che voi facciate per noi”, ha detto ad aprile in un discorso a San Francisco proprio ad una platea di operatori del settore tecnologico. Scambiare informazioni è diventato l’unico modo per prevenire minacce globali come il terrorismo islamico, ma non solo.

UN PERICOLOSO SQUILIBRIO

Gli attacchi di hacker connessi con l’Iran a grandi banche, alcuni pirati russi che avevano cercato di colpire i pc della Casa Bianca e ancora l’aggressività della Cina (messa per la prima volta nero su bianco nella National security strategy presentata a Brookings da Susan Rice e ricordata dal segretario alla Difesa Ashton Carter), hanno fatto aumentare l’allerta. E messo in luce quanto un colpo ben assestato potrebbe creare grossi problemi (e enormi perdite economiche) agli Stati Uniti. Ecco perché, conclude l’analisi, è primario recepire il messaggio che “i cattivi sono sempre più forti  e i governi occidentali sempre più deboli. E questo squilibrio – avverte Ignatius – ha bisogno di essere risolto”.

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