Vladimir Putin è venuto in Italia e ha recitato il solito repertorio. Forse è stato meno scontato con Papa Francesco il quale, a quel che se ne sa, gli ha detto chiaramente di rispettare gli accordi di Minsk. Semplice, diretto, efficace come nel suo stile. Perché le cose stanno esattamente così.
Ha ragione Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore: il presidente russo potrebbe fare a meno di dannarsi per dividere gli europei gettando soldi dei contribuenti (non ancora sudditi) per finanziare i partiti anti-europeisti di destra e di sinistra (secondo stime americane sarebbero una quindicina), evocare la storia patria, la religione ortodossa, lo spazio vitale e dire ai suoi camerati di cessare il fuoco a Donetsk. Per quanti pasticci abbia fatto l’Occidente, inteso come Europa e Stati Uniti, a combattere in territorio ucraino non sono andati i marine, ma i corpi speciali moscoviti privi di mostrine, e nei sacchi neri rimpatriati senza documenti non ci sono paracadutisti inglesi, ma soldati russi come ben sanno le mamme che li piangono.
La retorica sul dialogo nella quale eccelle l’Italia, sempre tentata dalla politica dei due forni di andreottiana memoria, non dovrebbe mai prescindere da questi pochi, evidenti, dati della realtà. Tuttavia bisogna interrogarsi su un fenomeno che sta diventando inquietante.
L’opinione pubblica è cambiata in pochi anni e la propaganda filo russa ha fatto breccia. Forza Italia, un partito nato come liberale e atlantista, adesso vuole persino presentare una mozione per la fine delle sanzioni; i giornali a lei vicini battono sulla teoria dello spazio vitale russo; la Lega di Salvini, l’estrema destra radicale, la sinistra dei nostalgici di Peppone e di Che Guevara, forse prendono soldi, aiuti, incoraggiamenti; ma anche il partito democratico sta praticando una Ostpolitik che evoca i tempi del Pci di Pajetta. C’è da chiedersi come mai.
Certo, influiscono gli interessi materiali colpiti (un miliardo, forse tre, si fa a chi la spara più grossa), anche se non sono state le sanzioni, quanto piuttosto il crollo del prezzo del petrolio a far precipitare una economia ancora totalmente dipendente dall’export di idrocarburi. Attenti alla disinformatia, dunque.
In molti agisce un antiamericanismo di fondo (passato il “siamo tutti americani” dopo l’11 settembre). Ma c’è anche una volontà genuina dell’Italia di ritrovare un ruolo, e un certo grado di autonomia, sulla scena internazionale dopo gli schiaffoni ricevuti dai partner tedeschi e francesi nell’area euro. Domina, tuttavia, un argomento che si sente ripetere sui media: la Russia è minacciata dalla espansione della Nato a est, ha diritto di difendersi e soprattutto di essere trattata alla pari dell’America. Ebbene, questa visione è sbagliata.
E’ vero che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, l’atteggiamento americano ha oscillato tra la voglia di coinvolgimento e la nostalgia del contenimento. Ma non bisogna dimenticare, nel decennio Eltsin, la feroce guerra in Cecenia e l’incoraggiamento ai serbi perché spadroneggiassero nei Balcani. Quanto a Putin, ebbene la diplomazia americana e occidentale ha compiuto tanti errori, però quelli di Putin sono ben più gravi.
E’ vero, fu il primo a manifestare solidarietà con gli Usa dopo l’attacco alle Twin Towers. Ma usò la disponibilità nella guerra al terrore per farsi sistemare la vecchia partita con l’Afganistan e avere di fatto mano libera dal Caucaso all’Asia centrale dove sono saldamente installati regimi “putiniani”. E non dimentichiamo che la guerra in Georgia è stata un punto di svolta negativo dopo il quale i rapporti con Washington non si sono mai ripresi. Nel 2009 al primo incontro con Obama, Putin chiese libertà di azione nel suo “cortile di casa”. Obama ha cercato di gettare un ponte a Medvedev, ma questi si è rivelato presto un burattino e nel meeting del 2012 a Los Cabos è calato di nuovo un grande freddo tra Casa Bianca e Cremlino.
Putin anche nell’intervista al Corriere blandisce e minaccia rinfacciando di sentirsi assediato. Sostiene che le sue forze armate non fanno manovre ad ampio raggio fuori dai confini, peccato che abbia dimenticato quel che accade già oggi nel Mar Baltico o la spartizione militare del polo Nord.
Tra la “Nuova Russia” putiniana e gli Stati Uniti odierni ci sono alcune divergenze di fondo. Tanto per citarne alcune: 1) Putin intende la potenza come espressione del territorio, l’America è per la globalizzazione e la democratizzazione internazionale. 2) Mosca vuol tornare a una logica bipolare, mentre gli Usa hanno scelto il multipolarismo e pensano alla Cina più che alla Russia. 3) La Nuova Russia è un sistema chiuso, ancorato a valori ortodossi (in ogni senso), con un sistema politico basato su un presidenzialismo autocratico; negli Usa odierni il potere del Congresso è diventato più forte, la società sempre più multiculturale e aperta (persino troppo). 5) Ma la questione di fondo è che Putin non ha mai accettato la perdita dell’Europa orientale (a cominciare dalla Polonia divisa e dominata per secoli), sfera d’influenza della Russia zarista e della Unione sovietica dopo la seconda guerra mondiale. L’emancipazione dell’est e i passi da gigante verso una integrazione occidentale è la più profonda divergenza strategica.
Zar Vladimir ha fatto risorgere il suo Paese dalle ceneri degli anni ’90 puntando su un modello del passato. Certo, ha ottenuto risultati economici e conquistato un consenso di massa (è parziale mettere l’accento solo sui brogli elettorali o la stretta contro le opposizioni che Putin ha confermato con cinica ironia al Corsera). Ma, al di là dei giudizi di valore, siamo sicuri che funziona? Coloro i quali scelgono un approccio pragmatico, come fa Renzi, dovrebbero porsi questa domanda e cercare le risposte. Siamo convinti che troverebbero una realtà diversa da quella immaginata per giustificare le loro scelte.
Stefano Cingolani