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Perché sono troppi (e inutili) i consigli a Matteo Renzi

Già abbondanti quando Matteo Renzi sembrava invulnerabile, spinto dal quasi 41 per cento dei voti raccolto nelle elezioni europee dell’anno scorso, i consigli giornalistici al presidente del Consiglio sono diventati incontenibili da quando egli ha dovuto ammettere l’”insuccesso” nelle elezioni regionali e comunali di questa primavera. E si è addirittura sdoppiato autocriticamente nel positivo “Renzi 1” della rottamazione e nel deludente “Renzi 2” del compromesso o del ripiegamento, anche se di questa seconda edizione, a dire la verità, si è avuta poca contezza con il lancio di Sergio Mattarella al Quirinale, con la riforma del mercato del lavoro e con il contropiede giocato alla Camera per l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale. Che è stata voluta ricorrendo a più voti di fiducia proprio alla vigilia del rinnovo dei consigli regionali e di molte amministrazioni comunali per dare una dimostrazione di forza, non certo di indecisione e debolezza.

Consiglieri e consigli adesso si sprecano, a destra e a sinistra, in alto e in basso, dentro e fuori, per spingere Renzi di qua o di là, incitarlo a recuperare il terreno imprevedibilmente perduto ed evitargli altre cattive sorprese nella gestione delle vecchie e nuove emergenze. Vecchie come quelle economiche e nuove come quelle dell’immigrazione e delle resistenze dell’Europa a farsene carico davvero, senza lasciare sola l’Italia a fronteggiare un fenomeno che si abbatte sulle sue coste solo perché sono le più vicine ai luoghi dai quali tanti disperati fuggono dalle guerre e dalla miseria.

Ai tanti volenterosi ma anche supponenti aspiranti consiglieri sfugge penosamente il fatto che Renzi non è di quelli che si lasciano consigliare. Egli vi è refrattario come altri suoi illustri predecessori, ai quali magari avrà anche fastidio di essere paragonato ma assomiglia in modo impressionante, almeno agli occhi di chi ha avuto l’occasione professionale di conoscerli e anche di frequentarli. Penso, in particolare, ad Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita e Silvio Berlusconi: diversi, anzi diversissimi per tante ragioni, ma accomunati dall’abitudine di fare di testa loro, senza lasciarsi condizionare dai consigli, richiesti o non richiesti che fossero.

Fui tra quelli ai quali il comune amico Fedele Confalonieri, non essendo riuscito con Gianni Letta nell’autunno del 1993 a convincere Silvio Berlusconi a rinunciare al proposito di “scendere in politica”, chiese di scrivergli o di chiamarlo per dissuaderlo. Risposi semplicemente, e onestamente, di non vedere come avrei potuto riuscire dove lui e Gianni avevano fallito. E quando, ciò nonostante, me lo passò al telefono e mi sentii chiedere per cortesia dallo stesso Berlusconi con chi pensassi che gli convenisse allearsi in caso d’impegno nelle ormai vicine elezioni del 1994, non ebbi bisogno di dargli nessun consiglio. Prima ancora che potessi rispondergli, lui mi aveva già raccontato per filo e per segno che cosa avrebbe poi fatto con la Lega di Umberto Bossi e con l’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini. Resistergli era semplicemente inutile.

Una decina d’anni prima mi era capitato con Craxi, allora presidente del Consiglio, di fargli notare ciò che molti ora dicono o rimproverano a Renzi: di occuparsi poco della periferia del suo partito e di sottovalutare i danni che avrebbe potuto subirne la sua pur forte immagine di leader. Gli raccontai, fra l’altro, di una sezione socialista del sud chiacchierata per l’abitudine del segretario locale di spacciarvi droga. Lui rimase profondamente turbato. Mi richiamò dopo qualche giorno per assicurarmi di essere intervenuto, ma anche per spiegarmi che della periferia si sarebbe occupato meglio e di più a suo tempo, quando avrebbe completato il profondo cambiamento di linea politica imposto  al partito dopo la sudditanza ai comunisti voluta e gestita dal predecessore Francesco De Martino. Diciamo che gli mancò il tempo per occuparsene davvero.

Sempre a proposito di Craxi, mi capitò nel 1991 di dirgli che “forse” aveva affrontato male il referendum promosso da Mario Segni contro le preferenze plurime, puntando più sull’astensionismo, come Umberto Bossi, che su una scelta chiara sul merito del problema. Lui mi rispose, a dispetto della nostra amicizia, che “voi giornalisti avete perduto il polso del Paese”. Poi, in verità, avrebbe ammesso pubblicamente, a conti fatti, di avere sbagliato.


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